san Paolo

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D’improvviso lo avvolse una luce dal cielo (At 9,3)

venerdì 28 agosto 2015

La storia di Gregoire Ahongbonon


Gregoire, l’ex gommista africano
che libera i malati di mente dalle catene

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Non è una storia comune. È la storia di un gommista che un giorno si mette a curare i pazzi, nella foresta africana. Che li va a cercare e liberare dai tronchi d’albero cui sono incatenati, nei loro villaggi, perché nel cuore dell’Africa i pazzi sono ancora creature possedute dagli spiriti maligni.
Au bois, si dice in Costa d’Avorio: avvinti ai ceppi vengono tenuti i folli, per mesi ed anni. Perché non scappino. Qualcosa da mangiare e da bere, il minimo. Fino a che non muoiano. Quelli ogni tanto urlano grida senza senso, oppure tacciono, arresi e inebetiti. Non hanno che da aspettare la fine. Così è, nella tradizione locale, da sempre. 

L’ex gommista si chiama Gregoire Ahongbonon, nato in Benin nel 1953, terza elementare, sposato, sei figli. Un nero piccolo di corporatura, simpatico, cocciutissimo, dicono, uno che si fa centinaia di chilometri per andare a liberare un altro povero cristo incatenato. Sono anni che s’è messo a fare la sua silenziosa rivoluzione. Amici, missionari, sacerdoti lo avvertono. Lui arriva, chiede il permesso alla famiglia, promette che può curare quel figlio, quel fratello. Gli si avvicina, nel silenzio attonito di tutto il villaggio. Gli parla – parla a ciò che resta di un uomo da anni legato come un cane.

Racconta Marco Bertoli, uno psichiatra italiano che ha seguito Gregoire nelle sue spedizioni: «È stata una scena straordinaria. Quel poveretto era lì, assente, che non aspettava niente se non di morire. Gregoire gli si è chinato accanto, lo ha chiamato per nome, gli ha detto “vieni, ti porto via”. Quello lo fissava, e non capiva. Allora Gregoire lo ha liberato dalle catene, lo ha lavato con delicatezza. Sulla faccia dell’uomo c’era stupore: quel prendersi cura di lui, quello sì, riusciva a capirlo. Poi ha seguito Gregoire senza una parola – come un bambino. Liberare dalle catene, chiamare per nome, lavare: aveva un sapore evangelico la scena che ho visto in quel villaggio».
Ma perché, ma come un gommista africano un giorno capovolge la sua vita così? Prima dei trent’anni Gregoire era un tassista benestante, un uomo dalla vita vivace e sregolata. Poi, disavventure finanziarie, e una profonda crisi. Nel 1982, di un pellegrinaggio a Gerusalemme gli rimangono impigliate nella memoria queste parole: «Ogni cristiano deve posare una pietra per costruire la Chiesa».

Gregoire è uno che le cose le fa sul serio. Dall’orlo del suicidio che aveva sfiorato, al buttarsi nelle carceri del suo paese, sorta d’inferno in terra, ad abbracciare gli ultimi. Ma il più ultimo lo incontra un giorno in una fogna della capitale. È sudicio, straparla, ed è completamente nudo. In Africa, la completa nudità è l’emblema della follia. Mentre nelle campagne il folle è incatenato, nella città vaga nudo e randagio. Perché proprio per lui quell’incontrollabile tenerezza? È il primo pazzo di Gregoire.

Ad oggi, sono oltre 2.500 quelli che ha accolto e liberato. Curato: imparando dai medici a somministrare gli psicofarmaci elementari disponibili nel paese. E gli psichiatri occidentali che assistono alle visite tacciono. Bertoli: «Colpisce la sensibilità che ha verso gli ammalati».
Racconta ancora il medico italiano che esistono nella foresta villaggi che vivono della custodia dei folli. Sette animiste, che pure incatenano e maltrattano i pazzi, ma dietro compenso, e non lasciano avvicinare nessun estraneo. Da lontano si sentono le grida dei prigionieri. Qui Gregoire deve fermarsi, la rabbia in faccia, impotente.

Moltissimo ha fatto, però, e molto vuole fare. Non da solo. Ha suscitato attorno a sé un grande numero di amici, missionari, ex pazienti, e un’impressionante quantità di iniziative. L’associazione San Camillo di Bouaké dall’83 ha rimandato a casa centinaia di malati guariti, costruito centri di accoglienza, un ospedale per i poveri, e si occupa della cura e del sostentamento di 1.400 malati (Per informazioni e contributi, www.gregoire.it).

 
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Gregoire, sono 25 anni che hai cominciato la missione di curare i malati mentali, a cominciare dal momento in cui nel volto di uno di loro hai riconosciuto il volto di Gesù. Che bilancio faresti dell’esperienza che si è dipanata fino ad oggi?
(Ride, ndr) Come si fa a fare un bilancio del fatto che tutti i giorni, da quel giorno, io colgo il volto di Cristo in quello dei malati? Si tratta semplicemente di continuare il lavoro iniziato. Gesù Cristo è presente nella loro carne. Finché ci sono malati incatenati a un albero o dentro a una capanna, io non posso fare un bilancio di vittoria. La mia vittoria fino ad oggi è trovarli e farmi aiutare da Lui per liberarli.

Per aiutare i malati spesso è stato necessario rompere le catene con cui erano stati immobilizzati, entrare in conflitto con chi li teneva in quelle condizioni, e altro ancora. È ancora necessario battersi a questo modo per aiutare i malati mentali, oppure le mentalità sono un po’ cambiate?
Abbiamo creato tanti centri, la gente vede e questo aiuta a cambiare le mentalità. C’è un miglioramento nel modo degli africani di rapportarsi coi malati mentali, ma resta ancora da fare un lavoro immenso di sensibilizzazione, e con l’aiuto della Grazia e dello Spirito Santo lo stiamo facendo con entusiasmo. Ci chiamano in altri paesi africani, e noi con gioia andiamo per portare avanti questa opera che Dio ha voluto e che continua. Non è la mia opera, non è il mio progetto: è la Sua opera, è il Suo progetto, e Lui sceglie chi vuole per realizzarlo. Dopo l’inizio in Costa D’Avorio siamo passati in Benin nel 2004, dove si riscontrava la stessa situazione della Costa D’Avorio: malati abbandonati nelle strade o incatenati nei villaggi. Abbiamo creato un centro nel sud e uno del nord, e un terzo centro lo apriremo a Cotonou, la capitale, dove l’arcivescovo ci ha messo a disposizione una proprietà fondiaria sulla quale stiamo costruendo. L’anno scorso abbiamo aperto il primo centro in Burkina Faso, a Bobo Dioulasso, proprio dentro al recinto dove si trova il vescovado. Vescovo, preti e malati mentali si trovano faccia a faccia ogni giorno! Adesso vorremmo fare qualcosa in Togo. Lì c’è una situazione sconvolgente: nel sud, poco lontano dalla capitale, mi sono imbattuto in una spianata dove ci sono 204 persone legate o incatenate a piante e pali. È il “campo di preghiera” di una setta che dice di poter liberare i malati dalla possessione degli spiriti. Al Meeting di Rimini parlerò di questo, perché abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti per cominciare l’opera anche lì.


Quello che si fa nell’opera lo hai definito spesso come “dare la libertà ai malati”. Ora, la condizione stessa di ogni malattia, e ancor di più della malattia mentale, è la mancanza di libertà, è uno stato di schiavitù, di prigionia. Che cosa significa esattamente per te “dare la libertà ai malati”?
Significa dare loro la libertà di vivere come le altre persone, riconoscere la loro dignità di esseri umani. Non sono dei malati ai quali la malattia ha cancellato ogni qualità umana, sono esseri umani che partecipano allo sviluppo della società. Alcune delle persone che sono passate attraverso i nostri centri adesso lavorano in associazioni di protezione dei diritti umani! Bisogna saperli accogliere e bisogna saperli comprendere. Allora danno tutto ciò di cui sono capaci.

Una delle ragioni per le quali gli africani hanno paura dei malati mentali, è che molti ancora pensano che essi siano stati colpiti dagli spiriti malvagi, e che non bisogna interferire con loro. Su questo versante è cambiato qualcosa o il problema sussiste ancora? La paura degli spiriti domina la vita degli africani o è stata superata?
In molti la paura è stata superata, ma molto resta ancora da fare. Ci sono ancora africani che quando assistono alla crisi di epilessia di un malato, pensano che sarebbe giusto bruciarlo vivo per impedire allo spirito malvagio che ha colpito quella persona di contagiare altri. Ma stiamo assistendo a un’evoluzione in tutto il continente, dovuta in parte alla diffusione e all’approfondimento del cristianesimo, in parte a una migliore educazione scientifica. I nostri centri nel Benin sono collegati in rete con dispensari dove i malati vanno a prendere le medicine. Il fatto che i malati assumono i medicinali li aiuta a stare meglio e a farsi accettare dalla gente, che smette di pensare agli spiriti come causa di quelle malattie. La sensibilizzazione sulle vere cause delle malattie psichiche va fatta sempre anche presso i cristiani, perché molti di loro continuano a credere nelle possessioni. Trattano i malati mentali come secoli fa i cristiani trattavano i lebbrosi: emarginandoli e tenendoli alla larga. Bisogna fare conferenze scientifiche, educare la gente, approfondire la catechesi.


L’Africa è un continente ancora molto povero. Dove trovate le risorse materiali e finanziarie per le opere che hai creato in questi anni?
Non sono le opere che ho creato io, sono le opere che Dio ha creato attraverso di me. Tutto ciò che viene da Dio è opera sua, e allora Lui provvede perché l’opera possa continuare. Abbiamo amici in tutto il mondo che ci aiutano con soldi e assistenza sanitaria: in Italia, in Francia, in Spagna, in Canada. In Benin i vescovi ci aiutano e invitano i fedeli ad aiutarci, a fare donazioni a nostro beneficio. Ci sono anche musulmani facoltosi che ci sostengono, perché i malati sono persone di tutte le fedi religiose e noi li avviciniamo senza fare distinzioni. La Provvidenza continua il suo cammino e noi ci fidiamo di lei. Quando abbiamo iniziato i nostri progetti in Benin, non avevamo i soldi necessari ad avviarli, ma ci siamo fidati dela Provvidenza. Quando un’opera viene da Dio, Lui provvede.

Una volta tu mi hai detto che la guarigione di un malato mentale dipende per il 50 per cento dai farmaci che assume e per il 50 per cento dall’amore cristiano che riceve. Che parte ha la preghiera nel tuo “cocktail terapeutico”?
La preghiera ha un’importanza capitale nei nostri centri, dappertutto c’è una cappella dove tutti i giorni viene celebrata almeno una Messa. Perché, lo ripeto, questa opera non è la mia opera, è l’opera di Dio, e allora bisogna rivolgersi a Lui perché continui. Nei nostri centri sta nascendo una comunità di laici consacrati, autorizzata dai vescovi: ecco il segno di quello che Dio ha in serbo. La preghiera ha un’importanza capitale nella mia vita: voglio essere in comunione permanente con la Chiesa, ogni giorno vado a Messa e mi accosto all’Eucarestia. Tutti i giorni mangio il corpo di Cristo e voglio che gli altri mangino me. Voglio essere mangiato da loro.

di Rodolfo Casadei (www.tempi.it)

martedì 25 agosto 2015

La storia di Maria Angela Bertelli


La Casa degli angeli

Suor Maria Angela Bertelli

Originaria di Carpi, suor Maria Angela Bertelli 
ha scelto di vivere in baraccopoli a Bangkok 
insieme alle donne rimaste sole con un figlio disabile. 
E ha scritto un libro su di loro.


La Casa degli angeli è una struttura in missione a Bangkok, Thailandia, dove vengono accolte le mamme di bambini disabili, donne che, non si sa bene perché, hanno deciso di non abbandonare un figlio ritenuto una disgrazia e frutto di una colpa.

Che un figlio con disabilità sia una sfortuna, o quantomeno un problema, è un’idea comune a molte culture, ognuna con la propria specificità. «Nel buddhismo theravada praticato in Thailandia la disabilità viene percepita dai più come frutto del karma», spiega suor Angela. «Ovvero: ti sei comportato male in una vita precedente e questa è la giusta punizione. La colpa può essere del bambino oppure di sua madre, in ogni caso entrambi sono evitati e tenuti a distanza. I mariti stessi di queste donne spesso se ne vanno lasciandole senza alcun appoggio».

La Casa degli angeli, nella parrocchia di Nostra Signora della Misericordia in una baraccopoli di Bangkok, dal 2008 ospita una ventina di mamme con i loro bambini disabili. «Posso dire che sta diventando pian piano una comunità viva perché cresciamo insieme, e soprattutto perché io stessa tra queste donne e i loro bimbi sperimento in modo molto concreto e reale Gesù vivo e il suo amore», afferma la religiosa. Eppure, l’inizio di questa opera non è stato facile. Così come non lo è stata la vita da missionaria di suor Maria Angela.

Originaria di Carpi, a 22 anni entra nella congregazione delle Missionarie di Maria (Saveriane) di Parma. Dopo i voti viene inviata a New York per imparare l’inglese e per frequentare un corso da fisioterapista: vive ad Harlem dove – anche se non è lì per questo – si dà da fare per i giovani che incontra nelle strade del quartiere.

Poi la prima destinazione in Sierra Leone, nel ’93. È nel Paese africano da due anni quando viene rapita insieme a sei consorelle dai guerriglieri del Ruf (Fronte unito rivoluzionario). La rilasciano dopo 56 giorni di prigionia. «Noi suore non subimmo tanto violenze di tipo fisico quanto di tipo psicologico», racconta oggi, «ma non potrò mai dimenticare gli orrori visti in quei giorni. Ho conosciuto il mistero del male, di come Satana può prendere dimora del cuore dell’uomo facendogli compiere atti che non sono più nemmeno a misura d’uomo».


Dopo questa vicenda, la congregazione decide di inviarla lontano, all’altro capo del mondo: in Thailandia. «Ero a Bangkok da un anno, quando ho attraversato una grossa crisi», racconta. «Mi sentivo trenta metri sotto terra. Forse in quel momento è uscito anche tutto lo stress che avevo tenuto a bada dopo il rapimento, ma sentivo anche un’inquietudine sul modo di vivere la missione. Chiesi alla mia comunità di poter lasciare la casa in cui mi trovavo con le mie consorelle per andare a vivere da sola in baraccopoli. Fu uno strappo doloroso, ma in seguito mi è diventato sempre più chiaro che il Signore mi stava accompagnando su una nuova strada, e con il tempo si sono ricuciti i rapporti anche con chi all’inizio non aveva approvato la mia scelta».

In baraccopoli lavora già un missionario italiano del Pime, padre Adriano Pelosin, che chiede a suor Angela di occuparsi prima degli ammalati di Aids e poi dei bambini disabili e delle loro mamme, i più deboli fra i deboli dello slum. «La Casa degli angeli non è nata da una mia idea», precisa suor Maria Angela, «ma dall’iniziativa di due fidanzati, Federica e Cristiano, venuti a trovarci nel 2005. Vedendo quello che facevamo proposero di creare un luogo di accoglienza per curare in modo adeguato i bambini disabili e sottoposero il progetto alla Caritas di Venezia che accettò di finanziarlo».



Oggi la Casa degli angeli è diventata una famiglia per donne che non avrebbero potuto provvedere da sole a questi figli dalle esigenze speciali. «Vivere accanto a queste donne è una grazia enorme», confida suor Maria Angela, «perché mi fa sperimentare la gioia di vedere all’opera Gesù nelle loro vite, in mezzo a progressi e sconfitte, ma comunque sulla strada verso un bene maggiore. Per questo, per quello che vedo ogni giorno, dico che non è un’opera nostra ma di Dio».

La soddisfazione più grande? Quando una delle mamme, Lek, ha detto di suo figlio disabile psichico: «Tam è una grazia per me. È un dono di Dio per me». Per questo suor Maria Angela ha deciso di scrivere un libro in cui racconta le vicende di queste donne: «Non sono una scrittrice, ma non potevo tenere questa ricchezza solo per me».

È difficile trovare nella stessa persona azione e contemplazione. Forse per quello che ha vissuto, suor Maria Angela riesce a comunicare questa unità. «Sa qual è il momento in cui prego meglio? Quando sono in motorino in mezzo al traffico di Bangkok, magari per un’ora. Non posso perdere la concentrazione e allora ne approfitto per pregare. Ripercorro insieme al Signore i problemi delle donne della Casa degli angeli, e affido tutto a lui».


Testo di Emanuela Citterio (www.credere.it)