san Paolo

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D’improvviso lo avvolse una luce dal cielo (At 9,3)

lunedì 31 ottobre 2016

La storia di Ximena Galvez


Desconectaron a la bebé, la consideraban en vida vegetal, la dieron a la mamá... y la niña sonrió

Il miracolo che ha confermato
la santità di José Sánchez del Río

Otto anni fa, i medici in Messico scollegarono una bambina di nome Ximena Galvez dalle apparecchiature che la tenevano in vita, convinti che fosse morta a livello cerebrale.
Domenica scorsa, Ximena ha abbracciato forte papa Francesco durante una Messa in Piazza San Pietro.

L’incredibile storia di questa bambina è venuta alla ribalta in occasione della canonizzazione di José Sánchez del Río, martire della Guerra Cristera messicana.

Paulina Galvez, la mamma di Ximena, è convinta che sia stato attraverso l’intercessione di San José – chiamato affettuosamente dai messicani “Joselito” – che sua figlia è riuscita a sopravvivere. E la Chiesa è d’accordo con lei, considerando la sua guarigione inspiegabile dal punto di vista medico un segno da parte di Dio del fatto che Joselito è un santo.

Paulina Galvez è di Sahuayo, nello Stato messicano di Michoacán, dove San Joselito nacque nel 1913 e venne martirizzato nel 1928. 
Si tratta di una zona del Messico in cui i cristeros, incluso San Joselito, lottarono coraggiosamente per la libertà religiosa e che ora è sottoposta a nuove prove per via dell’attività sempre più intensa dei cartelli della droga.
Parlando con Aleteia a Roma, Paulina si è descritta come “una persona che è stata abbondantemente benedetta ed è molto amata da Dio e dalla nostra Beata Madre”.

Potrebbe descriverci brevemente cos’è accaduto a sua figlia otto anni fa?
Mia figlia aveva meningite, tubercolosi ed epilessia; hanno dovuto asportarle un polmone; ha avuto un ictus. Quando me l’hanno data, mi hanno detto che era già in “stato vegetativo”. Io ho detto che non credevo nei medici ma credevo in Dio, ed è stato allora che ho iniziato ad aggrapparmi a Lui.

Cosa l’ha convinta che sia stata l’intercessione di José a guarire sua figlia?
Dopo che mi è stato detto che secondo i medici aveva 72 ore di vita e che l’avrei portata a casa morta, ho visto che la prima volta in cui ho messo un’immagine raffigurante mi niño (José Sánchez) accanto a lei mi ha stretto il dito. La seconda volta ha mosso la gamba. La terza apriva e chiudeva gli occhi ogni volta che le mostravo l’immagine, e ogni volta ho iniziato a pregare. E allora ho scoperto che mia figlia stava bene, che nostro Signore e la nostra Madre erano con lei e che mi niño, José Sánchez, la teneva tra le braccia. E lei ha risposto ogni volta che le mettevo la sua immagine davanti agli occhi.

Ci dica del processo di indagine del Vaticano…
Sono stati sette anni e mezzo lunghissimi, con studi, visite in vari ospedali, medici… Studi e altri studi. È stato un processo molto lungo e penso che per me sia stato un incubo, ma grazie a Dio l’abbiamo gestito, e ora possiamo dire che il nostro niño, José Sánchez del Río, è stato elevato agli altari e viene riconosciuto come santo in tutto il mondo.

Come sta ora Ximena?
È felice. Piena d’amore, di salute, di felicità. È davvero benedetta. E penso che sia più vicina a Dio della maggior parte degli altri bambini.

Com’è cambiata la sua vita dopo tutto questo?
È tutto diverso. Mi sento più vicina a Dio e alla nostra beata Madre. Ho sperimentato in modo più profondo l’amore che Dio ha per noi e quanto Egli sia grande. Il suo tempismo è perfetto. Al Suo fianco, non dobbiamo temere nulla.

Abbiamo visto che c’è stato un abbraccio molto sentito tra Ximena e il Santo Padre, e anche tra lei e il papa…
È stato un sogno divenuto realtà per entrambe stargli così vicino, poter condividere la nostra gioia con lui e soprattutto esprimergli la nostra gratitudine per il fatto che grazie a lui il nostro niño abbia potuto essere canonizzato. E chiedergli di pregare per la pace nel mondo, nelle nostre famiglie, e ancora dirgli che gli vogliamo davvero bene e che preghiamo per lui.

Le ha detto qualcosa in particolare?
Ha detto che anche lui ci voleva molto bene e che dovevamo pregare per lui.

Questo articolo si basa su un’intervista fornita da Mariangeles Burger e Luz Ivonne Ramírez Padilla.
[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]
tratto da: http://it.aleteia.org/2016/10/20/miracolo-confermare-santita-jose-sanchez-del-rio/

sabato 17 settembre 2016

La storia di Katja Giammona


"Ho visto l'Inferno e la mia vita è cambiata"

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Nata a Wolfsburg (Germania) l’11 luglio del 1975 in una famiglia italiana di Testimoni di Geova, Katja all’inizio dell’adolescenza – grazie all’amicizia con una ragazza cattolica e alla guida di un pastore protestante – sentì il desiderio di perfezionare il suo battesimo entrando nella Chiesa Cattolica.

In realtà per qualche tempo, come molti ragazzi, visse una vita doppia senza neanche rendersene pienamente conto: “Io ero una peccatrice che neanche si rendeva conto di esserlo. Perché il mondo ti ripete che non esistono peccati...” Katja, pur dichiarandosi ufficialmente cattolica “sulla carta”, conviveva con un ragazzo, con il quale ebbe anche una figlia, e cercò di realizzare il suo sogno di successo nel mondo dello spettacolo, diventando un'attrice di qualche notorietà: "mi trovai a fare una vita che per me era una festa. Ogni notte quando potevo mi trovavo alla P1, una discoteca di Monaco di Baviera 
dove la gente famosa andava a divertirsi".

Ancora oggi si legge su Wikipedia: "Katja Giammona è un'attrice tedesca di origine italiana, attiva in televisione e nel cinema dalla seconda metà degli anni novanta. Tra i suoi ruoli più noti figura quello di Pia Lombardi, nella serie televisiva Il nostro amico Charly"

Ma la sua carriera fu definitivamente interrotta 
nel febbraio del 2002, perché, come spiega lei stessa:
 “Cristo mi voleva sua, e che vivessi e lavorassi solo per Lui”.
 Mentre si trovava a Berlino per il Festival Internazionale del Cinema, avvenne qualcosa che le cambiò radicalmente la vita. Rientrata in casa di alcuni amici, andando a letto si sentì male, 
senza sapere perché: 

"di colpo mi sono ritrovata in una stanza buia. Era nera e non aveva pareti... sembrava larga perché io nelle fiamme correvo per cercarne l'uscita. Le fiamme si alzavano da terra, erano gialle, arancioni 
e andavano verso l'alto..." 

"Lì tra le fiamme mi apparve una persona giovane che non so se era uomo o donna, con un viso bello e capelli neri lisci, corti a caschetto... Questo essere mi rideva in faccia mentre io cercavo di fuggire. Io corsi via, ma lui rimase dietro di me nelle fiamme tutto calmo, senza temere che potessi sfuggirgli, e gridava: «Corri, corri, che tanto di qui non uscirai! Vedi che non c'è uscita, puoi correre quanto vuoi...» 
Intanto io bruciavo, sentivo il dolore del bruciare, ma non fisicamente, il corpo non bruciava, rimaneva intatto. Non dimenticherò mai la sofferenza atroce che provavo". 

Poi quell'essere demoniaco le disse: "Adesso che i tuoi polmoni stanno esalando l'ultimo respiro e il tuo cuore cessa di battere, 
è qui che ti ritrovi, qui per sempre". Allora Katja capì che si trovava in punto di morte o che forse era già morta. Era un posto dove non si poteva riflettere, tanta era la sofferenza e il panico, ma dove "certamente si acquisiva di colpo consapevolezza di sé, in modo drammatico e durissimo".

A un certo punto, continuando a correre, vide il salotto della casa dei suoi genitori, e sua madre che si svegliava alle tre di notte per pregare. Tentò di gridare, le chiese di pregare per lei, ma la madre non poteva vederla né sentirla. Sua madre si era convertita anche lei al cattolicesimo ed era divenuta un'anima di preghiera quando Katja aveva avuto una gravidanza difficile, e faceva penitenze e digiuni per la sua conversione. A Katja davano fastidio tutte quelle preghiere, la vedeva come una fanatica bigotta, la facevano sentire in colpa e temeva le portassero sfortuna, perciò un tempo le aveva chiesto di smettere di pregare per lei. E ora che la supplicava non poteva sentirla e continuava con le sue preghiere a santa Brigida:

"quella notte tutto si ribaltò e lì nelle fiamme non facevo altro, disperatamente, che chiedere con umiltà a mia madre 
di pregare per me!... E capii che il tempo può finire anche all'improvviso, la vita sulla terra passa e noi non cessiamo di esistere. La vita continua nell'Aldilà. O in un luogo bello e felice oppure in un luogo tenebroso e doloroso..."

Alla fine sua madre pregò comunque per lei come faceva sempre con devozione e amore materno. Katja però aveva compreso che “questa è una vera punizione: non avere nessuno che prega per te”.
Allora tornò in sé e si ritrovò sul letto, immobile, pallida, fredda, con le labbra “leggermente azzurre”, stretta nel suo corpo, cercava di parlare ma non riusciva. I suoi amici erano lì, spaventati perché da ore non si svegliava nonostante dei muratori che lavoravano nella sua stanza e stavano per chiamare un'ambulanza. Poi di colpo aprì la bocca e diede un respiro. Un’esperienza simile a quelle di pre-morte, tipica di chi si risveglia dal coma. 

Katja Giammona © katja-giammona.de

Da quella notte la vita di Katja cambiò direzione. Diede fine ad una relazione affettiva adulterina e dopo un paio di mesi si recò in pellegrinaggio a Medjugorje, dove decise di consacrare la sua vita al servizio di Dio e di vivere ritirata in preghiera con Cristo per non perdere mai la sua presenza. Oggi è un'eremita post-moderna e si chiama sorella Benedicta:

"Gesù mi fece alzare lo sguardo verso il cielo e mi disse chi sono le vere star! Star significa stella, Lui mi disse che le vere stelle non sono i famosi attori che hanno vinto un Oscar, ma i santi. Sono i cristiani che amano Gesù e lo seguono sulla via della croce! Anche se nascosti agli occhi della gente e del mondo, essi non sono nascosti a Dio e al Cielo. Loro sono le stelle che luccicano nel cielo..."

Tratto da Antonio Socci, "Avventurieri dell'eterno", Rizzoli
Cfr. http://it.aleteia.org/2015/09/08/katja-giammona-dal-grande-schermo-al-piccolo-eremo-passando-per-linferno/

martedì 17 maggio 2016

La storia di Irene Bertoni


Cofondatrice di Nomadelfia, prima "mamma di vocazione"



A Nomadelfia, dove «la fraternità è legge» e si vive come nelle prime comunità cristiane, più che piangere per la scomparsa, si gioisce e si ringrazia Dio per quella che definiscono la «partenza per la vita eterna» di Irene Bertoni, prima «mamma di vocazione» e assieme a don Zeno Saltini cofondatrice di questa particolare esperienza e della cittadella nei pressi di Grosseto.

Nata a Mirandola, in provincia di Modena, il 6 febbraio 1923, Irene è morta domenica a Roma dove ormai viveva stabilmente dagli anni Settanta nella casa donata ai nomadelfi da Paolo VI
Irene aveva appena 18 anni, non era all’epoca nemmeno maggiorenne, quando nel 1941 iniziò a seguire don Zeno e si presentò al proprio vescovo con due ragazzi abbandonati: «Non sono nati da me – spiegò –, ma è come se li avessi partoriti io». Il vescovo benedisse la giovane liceale e la sua maternità non dalla carne o dal sangue, ma dallo spirito e dalla volontà. 
Da quel momento, Irene ha donato la sua maternità a 58 figli oltre ad occuparsi per mezzo secolo dei rapporti con la Santa Sede e con lo Stato italiano, incontrando in questo lungo periodo Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI e in particolare Giovanni Paolo II.

Nomadelfia è un popolo di volontari cattolici che vuole costruire una nuova civiltà fondata sul Vangelo, sul modello delle prime comunità cristiane. Tutti i beni sono in comune, non esiste proprietà privata. Non circola denaro, si lavora solo all'interno senza essere pagati. Le famiglie sono disposte ad accogliere figli in affido. 

In Nomadelfia vivono attualmente una cinquantina di famiglie. Vi sono famiglie di "mamme di vocazione" e di sposi. Le mamme di vocazione sono donne che rinunciano al matrimonio per vivere una maternità virginea e accogliere ed educare minori abbandonati come veri figli, per sempre. 
Anche gli sposi sono disposti ad accoglierli con lo stesso spirito.





La storia di Wolfgang Fasser


Incontro con l'invisibile


“L’essenziale è invisibile agli occhi”, la celebre frase di Saint Exupery ben si presta a descrivere la vita di Wolfgang Fasser, il fisioterapista non vedente che cura i bambini disabili attraverso la musica e accompagna ragazzi e adulti di notte nel bosco ad ascoltare i suoni della natura.



“Di solito siete voi ad accompagnare me nel mondo del visibile, per una volta vorrei portarvi nel mio mondo, il mondo di ciò che è invisibile agli occhi”. 

E’ questo l’invito che Wolfgang Fasser, non vedente dall’età di 22 anni a causa di una malattia degenerativa, rivolge a coloro che lo scelgono come guida per inoltrarsi nei boschi la notte, nella totale oscurità, per ascoltare i suoni degli animali e scoprire altre dimensioni del “vedere”, in un’immersione completa con il mondo della natura.
Presentare Wolfgang Fasser non è facile, tanti sono gli aspetti che caratterizzano la sua esperienza umana così originale. Nasce nel 1955 in un paese sulle Alpi svizzere. La sua vista manifesta subito dei problemi a causa  della retinite pigmentosa e diventerà completamente cieco all'età di 22 anni. Nessuna battuta d'arresto però nella sua vita. Diventato fisioterapista svolge la sua attività con successo in Svizzera. Nell'87 lascia tutto per andare in uno degli stati più poveri dell'Africa, il Lesotho. Vi rimane 3 anni. Rientrato da quell'esperienza si ritira a vivere in campagna, aPoppi nel casentino, dove dà vita insieme a don Luigi Verdi alla Fraternità di Romena, un'esperienza che offre percorsi di ricerca interiore a quanti desiderano ritrovare una vita più autentica. Nel 1999  fonda l'Associazione Il Trillo che cura bambini con diverse disabilità, anche a attraverso la musicoterapia. Ogni anno ritorna per due mesi e mezzo in Africa a proseguire l'attività iniziata là. Lo abbiamo intervistato proprio al rientro del suo ultimo soggiorno nel Lesotho.

Partiamo dalla malattia degenerativa che l'ha colpito da bambino: come ha affrontato l'esordio e l'avanzare di questa patologia che l'ha condotto progressivamente alla cecità?
Sono cresciuto in una famiglia dove eravamo 5 fratelli, di cui tre hanno avuto problemi alla vista. La diagnosi di retinite pigmentosa è arrivata quando avevo 5 anni, ma allora non mi rendevo conto bene della mia situazione. Intorno ai 10-15 anni non vedevo certe cose, da adolescente ero già gravemente ipovedente. Il periodo in cui un po' vedevo e un po' no, in realtà è stato più pesante di quello successivo. Quando a 22 anni non ho visto più nulla è stata quasi una liberazione, era venuta meno l'incertezza.
Come ho vissuto tutto questo? Posso dire che non ho mai avuto momenti di disperazione, di base avevo dentro di me una fiducia: "Va bene così". Mi sentivo connesso con ogni cosa, con la natura, con il cielo. Sentivo che c'era qualcosa di grande che mi proteggeva. A quell’epoca non era Dio, ma solo "qualcosa", con il tempo ho scoperto che era un'esperienza spirituale. Fin da piccolo avevo la consapevolezza che la mia vita sarebbe stata diversa.
Certo mi dispiaceva non poter fare alcune cose, come ad esempio andare con il motorino, sciare liberamente, andare in discoteca con gli amici. Ma avevo una fiducia di fondo.
Inoltre i miei genitori hanno aiutato molto sia me che i miei fratelli a diventare autonomi, a superare gli ostacoli, a vederli come qualcosa che ti fa diventare abile nella vita e anche a convivere con un po' di ignoranza della gente.
Attraverso la mia disabilità ho imparato il coraggio di vivere la vita così com'è e di chiedere aiuto.

L'idea di andare in Africa come le è venuta?
Ho lavorato come fisioterapista in Svizzera fino al ‘97, poi ho sentito il bisogno di lavorare in situazioni molto esistenziali, con problemi elementari. A quel tempo stavo avendo un successone a livello professionale, potevo insegnare in America e in Australia, avevo soldi, era tutto bello, ma una cosa non tornava: mi sembrava impossibile essere già arrivato dove di solito si arriva alla fine della vita lavorativa. Allora ho pensato di andare in Africa, come sognavo da bambino. Sono andato nel Lesotho (dove ero già stato per un breve periodo nel 1981), e sono rimasto lì 3 anni. In Africa ho sperimentato che la vera gioia non sono i soldi, ma l'entusiasmo nel proprio lavoro. Guadagnare troppo diventa una barriera per la vita.


L'Africa per un non vedente... non è un luogo difficile?
In realtà non è così, in Africa non si cammina da soli, è normale fare la strada insieme e quindi per un non vedente è quasi più facile.

Al ritorno da quell'esperienza si è trasferito in Italia...
Sì, sono venuto a vivere qui a Poppi dove avevo degli amici, perché non potevo tornare a Zurigo dopo un'esperienza come questa. Volevo restare nella natura. Inoltre per un non vedente vivere in campagna è più facile, non ci sono i pericoli del traffico, i rumori... Ora trovo che mi fa bene andare in città, ma penso che è più bello vivere in campagna e andare in città, che vivere in città e andare in campagna.

Vive in un eremo all'insegna dell'essenzialità, non le mancano le comodità?
Essenzialità significa andare all'essenza, levare le cose che sono all'esterno e non mi fanno sentire la mia vita. Mi piace avere poco nella mia casa, solo quello che serve per vivere bene e sano. Faccio esperienza di Dio attraverso la vita, le persone, la natura.

In Africa continua ad andarci...
Dopo quell'esperienza sono ritornato in Africa due mesi e mezzo ogni anno. Dopo la mia partenza è importante che il lavoro lo porti avanti chi è là.  In Africa lavoro e insegno in ospedali, centri per anziani, comunità rurali. C'è un bisogno enorme, pensi che su 1.800.000 abitanti ci sono solo 8 fisioterapisti diplomati, mentre in Italia sono ben 50.000...

A Poppi ha fondato l'associazione Il Trillo che cura piccoli pazienti con disabilità motorie, ritardi nello sviluppo, disturbi nel comportamento, utilizzando, oltre alla fisioterapia,  i suoni della natura e gli strumenti musicali. Ci può parlare di questa esperienza?
Nella mia vita c'erano già la natura e la fisioterapia, sentivo il bisogno di inserire anche l'arte, volevo includere l'arte  come un linguaggio che va oltre la parola. La musica permette di fare questo e offre la possibilità di esprimersi anche a chi non può usare la parola. Inoltre attraverso la musica possiamo fare tante altre cose: ad esempio con una musica tranquilla si può sciogliere il corpo dalla spasticità e consentire il movimento. Vediamo che i piccoli con paresi cerebrali infantile spesso si annoiano quando devono eseguire gli esercizi per migliorare le funzioni motorie e così si rifiutano di farli. Nel contesto ludico della musicoterapia, invece trovano lo stimolo ad eseguire gli stessi movimenti.
Attraverso l'associazione Il Trillo in 15 anni abbiamo seguito 110 bambini con le loro famiglie, quasi tutti della zona del casentino.

Il rapporto con la natura è un elemento fondamentale della sua vita...
Sono cresciuto in montagna sulle Alpi svizzere. La natura per me era una seconda madre e i genitori ci lasciavano molto liberi... La natura dà pace, serenità. Vado spesso nei boschi e ho imparato a riconoscere tutti gli animali che li abitano e a leggere i loro segni. Mi piace aiutare gli altri  a scoprire la bellezza della natura e i poteri curativi delle piante.




E veniamo ai percorsi di notte nel bosco...
Accompagno gruppi di adulti o di bambini nel bosco a scoprire i suoni della natura. Si parte al tramonto e si va nel bosco senza torce. Man mano che si entra nel buio si aprono le orecchie. Si ascolta l'allocco che chiama, il grido della volpe, ci si tiene per mano e si impara a fidarsi. Si impara a prendere contatto con la bellezza della natura. Si superano le paure, ad esempio quella dei lupi e delle serpi.

Non semplici escursioni, ma esperienze di vita, dunque...
Questi percorsi sono un aiuto ad avere un contatto reale con la natura. Ad esempio nel vedere un lupo siamo condizionati dalla fiaba di Cappuccetto Rosso, ma la realtà è ben diversa. In questi itinerari si impara a convivere con la presenza dei lupi. Sappiamo che i lupi sono attorno a noi e loro sanno che noi ci siamo, ma rarissime volte li abbiamo incontrati. Anche la paura delle serpi è irrazionale. Nella natura in questi casi faccio un passo indietro, mi metto ad osservare, allora magari mi accorgo che la serpe di sta godendo il sole. Imparo a diluire l'emozione e a riflettere.
Posso dire che in questi 20 anni non c'è mai stato un incidente, non abbiamo mai avuto incontri infelici con gli animali. Si impara a fidarsi della volpe, del cinghiale, del daino, del lupo, a credere in una convivenza pacifica. In alcuni momenti ci si tiene per mano e questo affidarsi fa bene alle persone.
Allora molti che credevano di avere paura del buio, si ritrovano a camminare serenamente ed è capitato che invece di tornare alle 23.30 siamo rientrati alle 2. A volte con i gruppi si passa la notte nel bosco o si parte il venerdì sera e si torna la domenica.

Un non vedente che fa da guida a persone che ci vedono… uno strano paradosso, non le pare?
In realtà durante il giorno è il non vedente ad avere dei problemi, ma la notte i problemi li ha chi vede. Chi è non vedente non è luce dipendente. Durante la notte il vedente non vede più, mentre il non vedente vede: c'è un'inversione.

A Quorle c’è  anche la possibilità di partecipare anche a momenti di riflessione, di silenzio e incontro con se stessi…
Sì, qui siamo nel cuore di uno spazio di campagna viva, una campagna che tiene a distanza i rumori della città, perché siano libere le voci della natura e quelle degli uomini. Attraverso un lavoro di ristrutturazione abbiamo recuperato tutta l'area che circonda la piccola chiesa di santa Margherita e creato un luogo di accoglienza per i gruppi, con spazi comunitari, la cucina e una piccola cappella e poi vi sono tre piccoli eremi, dove chi vuole può vivere un periodo di silenzio, di raccoglimento, di incontro con sé stesso e con la natura disponendo di ciò che basta: un letto, un angolo cottura, uno spazio per scrivere e leggere, un bagno. Ma gli spazi della fraternità sono anche all'aperto: il giardino e l'orto sono l'annuncio che già da qui l'uomo riapre il suo dialogo creativo con la natura.
La vita di Quorle è vita semplice, scandita da ritmi sani, con la sveglia che arriva presto per godersi l'alba e permettere al giorno di offrire spazi per il silenzio, per il lavoro, per la condivisione. Niente radio o tv, la linea del cellulare è faticosa; in compenso si può ascoltare il canto degli uccellini, o scorgere una volpe o una lepre nel campo di fronte, o godere del profumo di un buon pomodoro appena colto nell'orto. L'invito è quello di abbandonarci fiduciosamente alla realtà che ci circonda, a scoprire Dio attraverso la vita, colta nelle sue piccole espressioni quotidiane.




di Marcella Codini (da www.lisdhanews.it)

mercoledì 4 maggio 2016

La storia di Matteo Pio Colella


IL MIRACOLO DECISIVO CHE SANTIFICO’ PADRE PIO

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In una fredda mattina del 20 gennaio 2000, Matteo Pio Colella, un bambino di sette anni che vive a San Giovanni Rotondo, va tranquillamente a scuola come ogni giorno. Ma la maestra Concetta si accorge dopo qualche ora che il bimbo sta male (brividi, testa inclinata verso il banco, incapacità di parlare). Vengono chiamati subito i genitori. Matteo ha la febbre a 40° e comincia a vomitare. Alle 20.30 della sera, quando il bambino non riconosce più la madre, si decide il ricovero immediato alla Casa Sollievo della Sofferenza, l’ospedale di Padre Pio dove il padre di Matteo, Antonio, lavora come medico. 

Le sue condizioni però appaiono subito disperate. Viene fatta una diagnosi di meningite fulminante. Nel giro di qualche ora il quadro si fa devastante: meningite acuta con andamento rapidamente progressivo per il determinarsi di uno shock settico e profonda compromissione degli apparati cardiocircolatorio, renale, respiratorio, emocoagulativo, con acidosi metabolica. 
Il bimbo viene portato in rianimazione. In pratica fin dal primo giorno vari organi vitali sono risultati compromessi. Nel giro di poche ore, al mattino del 21 gennaio, la situazione precipita drammaticamente con “uno stato collassiale, ipertermia, difficoltà respiratoria per desaturazione di ossigeno”. Si manifestano “segni quali cianosi intensa, edema polmonare, gravissima bradicardia per la grave ipossemia e acidosi metabolica”.

I medici ormai disperati si affannano e si agitano attorno al bambino, aumentando al massimo i dosaggi farmaceutici, ma il grave collasso cardiocircolatorio, la difficoltà a ossigenarsi nonostante la ventilazione meccanica, la sofferenza renale e la grave alterazione del sangue, fanno ormai pensare al peggio. Appare tutto inutile. Uno dei dottori – dopo essersi prodigato in ogni modo – a un certo momento, desolato, si ferma e dice: “Ragazzi, non c’è più nulla da fare, il bambino non si riprende”. Si toglie i guanti, va a lavarsi le mani e torna al fianco del fanciullo, con la dottoressa Salvatore, a guardare, ormai impotente, il piccolo Matteo. La dottoressa a questo punto incita a fare un ultimo, disperatissimo tentativo, come farebbe un padre di fronte al figlio. Fu così iniettata una forte dose di adrenalina che sortì qualche piccolo effetto, ma senza poter assolutamente cambiare la situazione ormai tragica del bambino. Il decesso era atteso da un momento all’altro.


Si legge negli atti del processo di canonizzazione di padre Pio: “Il dottor Violi passando in rassegna la fisiopatologia di questa devastante sindrome, ha dimostrato come quando gli organi insufficienti sono in numero superiore a cinque, le varie terapie impiegate risultano inutili, o comunque non hanno mai risolto alcun caso. Non risulta che nella letteratura internazionale ci sia alcun sopravvissuto affetto da tale patologia come quella del piccolo Matteo Pio Colella. Insomma non viene descritta alcuna sopravvivenza, infatti in tal caso la mortalità è del 100 per cento”. 

La madre, il padre, i familiari sono da anni Devoti di Padre Pio. Si mette in moto una grande catena umana di preghiere a Padre Pio affinché interceda. La mamma del bambino, raggiunta al telefono dalla maestra che chiede di sapere, riesce solo a dire, con la voce strozzata dalle lacrime: “Preghiamo Padre Pio, perché stiamo perdendo Matteo, solo Padre Pio può salvarlo”. Anche tutti i bambini della scuola iniziano a invocare Padre Pio. Così i frati, i parenti, gli amici, gli stessi medici e gli infermieri della “Casa Sollievo della Sofferenza”. Qualche parente addirittura si riavvicina a Dio per implorare il miracolo per il piccolo Matteo. Si susseguono in quelle ore concitate le visite alla tomba di padre Pio, i rosari, le reliquie portate a contatto con il bambino, le lacrime e le invocazioni accorate.

E la mattina del 21 gennaio “improvvisamente accade qualcosa di straordinario e con l’incredulità di tutti”, perché “gli organi del bambino riprendono a funzionare”. C’è clamore, commozione, stupore.
Il fenomeno è doppiamente sorprendente, perché già le speranze di sopravvivenza erano pari a zero, ma – nel caso remoto di sopravvivenza – certi erano i gravi danni cerebrali e renali che il bimbo avrebbe comunque riportato. Invece qua il bambino, dopo essere stato dieci giorni sedato e curarizzato, addirittura il 31 gennaio si sveglia, guarda medici e infermieri e dice: “voglio il gelato”. Poi comincia a scherzare con loro. 

Domenica 6 febbraio il piccolo – ancora in rianimazione – guarda tranquillamente la televisione e gioca alla play-station (introdotta “per la prima volta nella storia della medicina” in rianimazione perché i medici sono interessati a vedere “la risposta intellettiva” del fanciullo). I medici - ovviamente felici - si trovano davanti a qualcosa di inaudito, sconcertante. I genitori e gli amici in una gioia travolgente. Tutti i medici hanno dichiarato l’inspiegabilità scientifica della guarigione (e della mancanza di danni). Uno per tutti, il Dottor Alessandro Villella: “Non sono in grado di spiegare scientificamente la completa guarigione del piccolo Matteo Colella, senza dover pensare che possa esservi stato un intervento soprannaturale”. 




Molto bella è la testimonianza data dalla madre al postulatore della causa di canonizzazione di Padre Pio: “Qualunque sarà la decisione degli uomini su questo caso, la mia convinzione profonda di mamma e di credente rimarrà che mio figlio è tornato a noi perché il Signore immeritatamente ce l’ha restituito, è intervenuto a consolarci nella sua immensa misericordia, con l’intercessione del nostro caro Padre Pio”. La signora riferisce di segni inequivocabili della vicinanza del padre (per esempio un intenso “dolcissimo e gioioso” profumo di rose e viole da lei avvertito) e aggiunge: “Solo il Signore sa il senso di tutto ciò che è accaduto alla nostra famiglia. La mia certezza è che Egli ci è stato vicino e ci ha benedetti, grazie anche alla intercessione e alla preghiera amorevole di Padre Pio che, della sua missione sulla terra, diceva: ‘Come sacerdote la mia è una missione di propiziazione: propiziare Iddio nei confronti dell’umana famiglia’. E così è stato, caro Padre Pio, ci hai abbracciati nella prova e ci hai raccomandati a Dio”.

E il piccolo Matteo? Ricorda nulla di quelle ore di incoscienza? Per la medicina egli non doveva sentire, né vedere nulla, tantomeno ricordare qualcosa. Ma interpellato subito dopo il suo risveglio, Matteo riferì invece un ricordo molto preciso e sconvolgente: “Durante il sonno io non ero solo. Ho visto un vecchio. Mi sono visto da lontano, in questo letto, attraverso un buco tondo. Io ero vicino ai macchinari e un vecchio con la barba bianca e vestito lungo e marrone, mi ha dato la mano destra e mi ha detto: ‘Matteo, non ti preoccupare, tu presto guarirai’, e mi sorrideva”. Inoltre Matteo dice di aver visto tre angeli dai visi luminosi e di aver guarito insieme a Padre Pio un bambino dagli occhi celesti-verdi e i capelli neri che stava in un ospedale a Roma: "la mamma mi ha chiesto: come sei andato a Roma? E io ho risposto: ho fatto una specie di volo con Padre Pio che mi teneva la mano e mi ha parlato con la mente, e quando siamo arrivati mi ha chiesto: ‘Vuoi guarirlo tu?’. E io ho detto: come si fa? Così, con la forza di volontà. La mamma mi ha chiesto: come hai capito che eri a Roma? Ho riconosciuto il Luna Park dove ero andato con zio Giovanni"


da Antonio Socci: "Il segreto di Padre Pio"