san Paolo

san Paolo
D’improvviso lo avvolse una luce dal cielo (At 9,3)

domenica 30 settembre 2012

Le vostre ricchezze sono marce

Lettera di Giacomo (5, 1-6)



1 E ora a voi, ricchi: 
piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! 

2Le vostre ricchezze sono marce,  
3i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. 

Il vostro oro e il vostro argento 
sono consumati dalla ruggine, 
la loro ruggine si alzerà ad accusarvi 
e divorerà le vostre carni come un fuoco. 




Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!  

4Ecco, il salario dei lavoratori 
che hanno mietuto sulle vostre terre, 
e che voi non avete pagato, 
grida, e le proteste dei mietitori 
sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente.  

5Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, 
e vi siete ingrassati per il giorno della strage.  

6Avete condannato e ucciso il giusto 
ed egli non vi ha opposto resistenza.






Matteo (6, 19-21.24)

 19Non accumulate per voi tesori sulla terra, 
dove tarma e ruggine consumano 
e dove ladri scassìnano e rubano; 
 20accumulate invece per voi tesori in cielo
dove né tarma né ruggine consumano 
e dove ladri non scassìnano e non rubano.  
21Perché, dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.

24Nessuno può servire due padroni, 
perché o odierà l'uno e amerà l'altro, 
oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. 
Non potete servire Dio e la ricchezza. 





La baraccopoli di Koroghoco a Nairobi, in Kenya

Korogocho è una delle tante baraccopoli di Nairobi, la capitale del Kenya. 
Nairobi ha circa quattro milioni di abitanti.

E’ ormai accertato che su quattro milioni di abitanti, oltre due milioni di abitanti, il 60% della popolazione di Nairobi, vive in baraccopoli. 

E quello che è ancora più sconcertante è che non solo la maggioranza della popolazione di Nairobi viva in baracche, ma che il 60% della popolazione di Nairobi, quindi oltre due milioni di abitanti, è costretta a vivere dentro l’1,5% della terra totale di Nairobi. 

Le bestie selvagge nei parchi nazionali del Kenya sono trattate molto meglio del 60% della popolazione della capitale del Kenya. 



 

Non solo, quello che sconcerta, dentro questa drammatica realtà, non è solo la sardinizzazione delle persone, che avviene naturalmente se così tanta gente è costretta a vivere in così poco spazio, ma è anche il fatto che le baracche stesse, dentro queste baraccopoli, in buona parte non sono proprietà dei baraccati, ma di gente che vive un po’ più discretamente e che vive alle spalle dei baraccati, cioè ottenendo l’affitto. 

Generalmente si ammette che il 70-80% della popolazione che vive in baraccopoli vive pagando l’affitto ad altri che possiedono queste baracche, e qui si innesca tutto il meccanismo dentro le baraccopoli di Nairobi di sfruttamento del povero col povero. 

C’è da aggiungere, atto molto grave, che neanche questo 1,5% della terra di Nairobi in cui i baraccati sono costretti a vivere appartiene ai baraccati, ma appartiene al governo. 
Il governo quando ha necessità (e qui si innesca il meccanismo della corruzione totale governativa ) per pagare i ricchi, gli speculatori finanziari, per l’appoggio politico, offre loro un pezzo di questo terreno. 
Il governo dà 24 ore di preavviso ai baraccati che vengono poi buttati fuori e spinti più in là. 

Si può allora immaginare che il risultato di questa politica è devastante. 
Prima di tutto nessun baraccato ha voglia di abbellire un po’ la sua baracca o di trasformare il suo ambiente. Vive in questa condizione di radicale, totale precarietà con  un unico servizio offerto dal governo, quello dell’acqua che però è rivenduta dagli stessi abitanti a prezzi maggiorati. 
Non ci sono altri servizi da parte del governo. 

Le conseguenze di questo diventano poi chiare: le malattie che infestano questa zona. 
Situazioni come quella dell’AIDS, che costituisce una delle maggiori minacce alla popolazione dei baraccati di Nairobi. C’è chi parla del 50% di sieropositivi nelle baraccopoli. 

Lo sfacelo sociale è talmente chiaro: è inutile parlare di famiglie, buona parte sono donne con bambini e senza un marito. La sicurezza è violenza, violenza drammatica a volte nelle baraccopoli. 
Violenza incredibile che si sperimenta dove nessuno esclude nulla, perché in fondo è la lotta alla pura sopravvivenza. 




Ecco il quadro, direi, delle baraccopoli di Nairobi, ma, forse per capire ancora di più la situazione delle baraccopoli e l’incredibile realtà di Nairobi, dobbiamo tenere presente che davanti a tanta sofferenza e a tale sofferenza umana dei baraccati che costituiscono il 60%, dall’altra parte c’è una ricchezza ostentata che lascia sbalorditi. 

Davanti a Korogocho, a tre chilometri di distanza c’è una delle zone più ricche di Nairobi, Muthaiga, con una ricchezza, con delle ville, con delle case che farebbero sognare anche noi in Europa. E questo fianco a fianco, faccia a faccia. E’ questa la cosa che colpisce di più a Nairobi: puoi passare dal paradiso all’inferno nel giro di pochi chilometri o di pochi metri.

AIUTALI, SE PUOI! 

http://www.korogocho.org/

giovedì 27 settembre 2012

La carità è una grande signora

Servire Cristo nei poveri
 
Non dobbiamo regolare il nostro atteggiamento verso i poveri da ciò che appare esternamente in essi e neppure in base alle loro qualità interiori. 

Dobbiamo piuttosto considerarli al lume della fede. 

Il Figlio di Dio ha voluto essere povero, ed essere rappresentato dai poveri. 
Nella sua passione non aveva quasi la figura di uomo; 
appariva un folle davanti ai gentili, una pietra di scandalo per i Giudei; 
eppure egli si qualifica l'evangelizzatore dei poveri: 
«Mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4, 18).

Dobbiamo entrare in questi sentimenti e fare ciò che Gesù ha fatto: 

curare i poveri, consolarli, soccorrerli, raccomandarli.



 
Egli stesso volle nascere povero, ricevere nella sua compagnia i poveri, servire i poveri, mettersi al posto dei poveri, fino a dire che il bene o il male che noi faremo ai poveri lo terrà come fatto alla sua persona divina. 


Dio ama i poveri, e, per conseguenza, ama quelli che amano i poveri. 
In realtà quando si ama molto qualcuno, si porta affetto ai suoi amici e ai suoi servitori. Così abbiamo ragione di sperare che, per amore di essi, Dio amerà anche noi.

Quando andiamo a visitarli, cerchiamo di capirli per soffrire con loro, e di metterci nella disposizione interiore dell'Apostolo che diceva: «Mi sono fatto tutto a tutti» (1 Cor 9, 22). 





Sforziamoci perciò di diventare sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo. Preghiamo Dio, per questo, che ci doni lo spirito di misericordia e di amore, che ce ne riempia e che ce lo conservi.

Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto.  

Non ci devono essere ritardi.

Se nell'ora dell'orazione avete da portare una medicina 
o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente.
Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l'intenzione dell`orazione. 

Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, 
se per il servizio dei poveri avete lasciato l'orazione. 
Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un'opera di Dio per farne un'altra. Se lasciate l'orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. 

La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. 
E' una grande signora: bisogna fare ciò che comanda.
Tutti quelli che ameranno i poveri in vita non avranno alcuna timore della morte. 

Serviamo dunque con rinnovato amore i poveri e cerchiamo i più abbandonati. 
Essi sono i nostri signori e padroni.

San Vincenzo de' Paoli, Lettere e conferenze spirituali














"Il Signore ama la Compagnia delle Figlie della Carità.
Poche persone sono più vicine ai Poveri di loro.
Se gli amici dei Poveri sono gli amici del Signore, allora,
i membri della Compagnia sono tra i suoi amici più vicini.
"
San Vincenzo

 

Louise de Marillac presiedette prima le Confraternite della Carità (1629),
poi, con san Vincenzo, divenne strumento di Dio
per la nascita dell'innovativa comunità non "religiosa" delle Figlie della Carità (1633).






San Vincenzo non volle per loro clausura, non volle voti, abito, grata, parlatorio.
Dovevano vivere semplicemente.
Non volle cappella. Pretese per loro una casa simile a quella dei poveri. 





"Considereranno che non sono monache,
perché tale stato non si addirebbe alle occupazioni proprie della loro vocazione...
non avendo per monastero se non le case dei malati e
quella dove risiede la superiora,
per cella una camera d'affitto, per cappella la chiesa parrocchiale,
per chiostro le vie della città,
per clausura l'obbedienza, non dovendo andare se non dai malati e
nei luoghi necessari per il loro servizio,
per grata il timor di Dio, per velo la santa modestia,
e non facendo altra professione per assicurare la loro vocazione all'infuori
di quella continua fiducia che hanno nella divina Provvidenza 

e dell'offerta di tutto quello che sono
e di tutto quello che fanno per il servizio dei poveri...". 


Era un nuovo orientamento della Carità. 
Essa diveniva diritto dell'altro, debito d'amore
che si è chiamati a estinguere. 

La consacrata usciva dal chiostro per incontrare i fratelli nelle strade, 
nei luoghi della vita e della sofferenza.
A tutti portava Cristo. 

In tutti desiderava trovarlo, in tutti contemplarlo.

"Serve dei poveri, è come si dicesse, Serve di Gesù Cristo,
perché egli considera fatto a Sè quello che è fatto a loro che sono sue membra...
Lo spirito della Compagnia consiste nel darsi a Dio per amare Nostro Signore
e servirlo nella persona dei poveri materialmente e spiritualmente,
nelle loro case e altrove, per istruire le povere giovinette, i bambini,
in generale tutti coloro che la divina Provvidenza vi manda". 


Richiese la completa mobilità. 
Non volle la sicurezza di luoghi tutelati come i conventi,
per una maggior libertà e disponibilità. 





Il motto recitava "La Carità di Cristo ci urge".
Un amore che spinge, che arde nel cuore, 
"al soccorso del prossimo...come si corre al fuoco". 
Nella donna consacrata alla Carità riviveva la maternità della Chiesa,
che accorre sollecita ad ogni gemito o grido di aiuto.   


" Il fine principale per il quale Dio ha chiamato e riunito 
le Figlie della Carità
è per onorare Nostro Signore Gesù Cristo
come la sorgente e il modello di ogni Carità,
servendolo corporalmente e spiritualmente
nella persona dei poveri ".
(Regole Comuni, cap. I, par.I)
 


http://www.fdcsanvincenzo.it/ 

lunedì 24 settembre 2012

Un'economia diversa è possibile 2. EdC


Economia di Comunione

Cari amici, ecco un'altra grndissima opera che Dio ha ispirato a persone che si sono fidate di Lui.

L’Economia di Comunione (EdC) è un movimento che coinvolge imprenditori, imprese, associazioni, istituzioni economiche, ma anche lavoratori, dirigenti, consumatori, risparmiatori, studiosi, operatori economici, poveri, cittadini, famiglie.

E’ nata da Chiara Lubich nel Maggio del 1991 a San Paolo in Brasile.
Il suo scopo è contribuire, alla luce del Carisma dell’Unità, a dar vita ad imprese fraterne che sentono come propria missione sradicare la miseria e l’ingiustizia sociale, per contribuire ad edificare un sistema economico e una società umana di comunione dove, ad imitazione della prima comunità cristiana di Gerusalemme, “non vi era alcun indigente tra di essi” (At 4,32-34).

Attraversando la città di San Paolo, Chiara Lubich, nel maggio del 1991, era stata colpita nel vedere di persona, accanto ad una delle maggiori concentrazioni di grattacieli del mondo, grandi estensioni di "favelas".



Cosa fare?

Giunta alla cittadella del Movimento, la Mariapoli Araceli, vicino San Paolo, constatava che la comunione dei beni praticata nel Movimento fino ad allora non era stata sufficiente nemmeno per quei brasiliani, a lei così prossimi, che vivevano momenti d'emergenza.

Spinta dall'urgenza di provvedere al cibo, ad un tetto, alle cure mediche e se possibile ad un lavoro, e con in animo l'enciclica di Giovanni Paolo II "Centesimus Annus" appena pubblicata, aveva lanciato l'Economia di Comunione:

"Qui dovrebbero sorgere delle industrie, delle aziende i cui utili andrebbero messi liberamente in comune con lo stesso scopo della comunità cristiana: prima di tutto per aiutare quelli che sono nel bisogno, offrire loro lavoro, fare in modo insomma che non ci sia alcun indigente.
Poi gli utili serviranno anche a sviluppare l’azienda e le strutture della cittadella, perché possa formare uomini nuovi: senza uomini nuovi non si fa una società nuova!
Una cittadella così, qui in Brasile, con questa piaga del divario tra ricchi e poveri, potrebbe costituire un faro e una speranza
".



L’adesione dei presenti era stata immediata: tutti si erano sentiti coinvolti, scossi nel profondo, e si erano lanciati a dare il proprio contributo personale nelle maniere più diverse, attuando con nuovo slancio e radicalità la comunione dei beni vissuta nel Movimento sin dagli inizi.

Tutto in comune: soldi e gioielli, terreni e case, disponibilità di tempo, di lavoro, di trasferimento, offerte di dolore, di malattie… come chi ha dato tutti i suoi risparmi, 4.000 dollari, "perché facciano parte di questo oceano d’amore, come una goccia d’acqua…e Dio trasformi questo sogno in una grande realtà che illuminerà l’inizio del Terzo Millennio".

Il ‘sogno’ di allora sta diventando realtà: molte aziende sono nate e non solo in Brasile, ma in molti Paesi del mondo, imprese già esistenti hanno fatto proprio il progetto, modificando lo stile di gestione aziendale e la destinazione degli utili.

A ottobre 2009 vi avevano aderito 688 imprese di varie dimensioni:
  • Europa 413 (di cui 235 in Italia)
  • America del Sud 209
  • America del Nord 35
  • Asia 25
    Medio Oriente 2
  • Africa 2
  • Australia 2
Negli ultimi 5 anni sono nate 50 nuove imprese ispirate al progetto e 50 già attive hanno deciso di aderirvi. Alcune centinaia poi hanno cominciato a vivere la stessa cultura della fraternità. Questa nuova cultura economica intende favorire una nuova concezione dell’agire economico, non solo utilitaristico, ma teso alla promozione integrale e solidale dell’uomo e della società.

la cultura del dare

I soggetti produttivi dell'Economia di Comunione - imprenditori, lavoratori e altre figure aziendali - sono ispirati a principi radicati in una cultura diversa da quella prevalente oggi nella pratica e nella teoria economica.

Questa cultura possiamo definirla "cultura del dare" proprio in antitesi con la "cultura dell'avere".
Il dare economico è espressione del "darsi" sul piano dell' "essere". In altre parole, rivela una concezione antropologica non individualista né collettivista, ma di comunione.

Una cultura del dare, che quindi non va considerata come una forma di filantropia o di assistenzialismo, virtù entrambe individualistiche.
L'essenza stessa della persona è essere "comunione".




Di conseguenza, non ogni dare, non ogni atto di dare crea la cultura del dare.
C'è un "dare" che è contaminato dalla voglia di potere sull'altro, che cerca il dominio e addirittura l'oppressione di singoli e popoli. E' un "dare" solo apparente. C'è un "dare" che cerca soddisfazione e compiacimento nell'atto stesso di dare. In fondo è espressione egoistica di sé e in genere viene percepito, da chi riceve, come un'offesa, un'umiliazione.
C'è anche un "dare" interessato, utilitaristico, presente in certe tendenze attuali del neo-liberismo che, in fondo, cerca sempre il proprio tornaconto..

E infine c'è un "dare" che noi cristiani chiamiamo "evangelico".
Questo "dare" si apre all'altro nel rispetto della sua dignità e suscita anche a livello di gestione delle aziende l'esperienza del "date e vi sarà dato" evangelico. Si manifesta a volte come un introito inatteso o nella genialità di una soluzione tecnica innovativa o nell'idea di un nuovo prodotto vincente.

L’economia oggi è di fronte ad una svolta: i processi di globalizzazione possono offrire nuove opportunità a tanti esclusi dal benessere o trasformare il mondo in un grande supermarket, dove l’unica forma di rapporto umano è quello economico, dove tutto diventa merce.

L’EdC è una delle risposte che lo Spirito sta suscitando per vincere queste sfide.
Nel corso della storia i carismi sono stati delle risposte alle sfide poste dai grandi mutamenti epocali – pensiamo alle Abbazie benedettine, o ai Monti di Pietà dei francescani, durante il Medioevo.
E all’interno del dibattito attuale – pro o contro i mercati? – l’EdC sta seguendo una sua traiettoria, che mette la vita e non le ideologie al primo posto, in dialogo con tutto ciò che oggi c’è di buono.

http://www.edc-online.org/
http://www.focolare.org/it/

Tardo capitalismo o tardo feudalesimo?

La sfida più urgente è la diseguaglianza



La crescita è una sfida, la diseguaglianza ancor di più.
L’aumento della diseguaglianza nelle economie capitalistiche sta diventando 
il primo vero ostacolo allo sviluppo economico e sociale, 
perché a causa della grande diseguaglianza di opportunità, diritti e libertà, 
la ricchezza dopata che abbiamo creato non è feconda 
e generativa di lavoro e di autentico sviluppo.




Del resto, come avrebbe potuto esserlo? Solo il lavoro genera lavoro.
Se si ripercorre il cammino che abbiamo compiuto dalla rivoluzione industriale a oggi,
ci si rende conto di quanto sia preoccupante nelle economie di mercato l’indice delle diseguaglianze.
Dopo una sostanziale diminuzione nelle economie occidentali del Novecento,
dovuta al passaggio da economie e strutture sociali feudali
a una economia di mercato molto più dinamica, negli ultimi decenni 
il capitalismo trionfante sta facendo di nuovo aumentare le diseguaglianze, 
riportandole a livelli molto vicini a quelli iniziali.

Negli Stati Uniti i primi 500 top manager guadagnano in media 10 milioni di dollari l’anno, e i 20 più ricchi manager di hedge funds (i fondi d’investimento più speculativi) guadagnano in totale più della somma dei redditi di quei 500 manager. E c’è di più: oggi la diseguaglianza presente all’interno degli Usa è molto simile a quella di Paesi che stanno solo ora uscendo da strutture sociali feudali.
Insomma, il nostro tardo capitalismo sta assomigliando troppo al tardo feudalesimo, 
come se due secoli di sviluppo economico e di diritti non fossero serviti a nulla,
o a troppo poco, in termini di diseguaglianza.
Troppo mercato sta producendo gli stessi frutti incivili dell’assenza di mercato. 

E questo è un messaggio urgente e grave, anche perché contraddice l’utopia riformista profondamente associata alla nascita dell’economia politica moderna, quando lo sviluppo dei mercati era visto dagli illuministi come il principale strumento per superare il mondo feudale, e avviarsi verso quella società democratica di persone libere e uguali da loro non intravista, ma agognata.

E, infatti, finché lo sviluppo dei mercati è stato anche sviluppo del lavoro e dei diritti,
l’economia è stata complessivamente fedele alla sua vocazione originaria;
ma un capitalismo di ultima generazione, fondato sulle rendite finanziarie e sul debito, 
sta riportando il mondo in una polarizzazione rigida tra classi che credevamo di aver superato. 
Perché? 



Innanzitutto i 4/5 dei cosiddetti poveri assoluti (i circa due miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno) non si trovano più nei cosiddetti ‘Paesi poveri’, ma in Paesi a reddito medio e alto. Ciò dice un fatto nuovo e di portata epocale: la linea di demarcazione tra ricchi e poveri è sempre meno legato alla geografia (Nord–Sud) ed è sempre più spostata all’interno di ogni Paese: la globalizzazione ha infatti profondamente cambiato la morfologia della povertà.

Per questa ragione oggi il rapporto tra Pil dei Paesi e i vari indicatori di benessere e di malessere è sempre meno significativo e utile. Se prendiamo il Pil dei Paesi a reddito pro–capite medio alto (ad esempio i Paesi Ocse) e li incrociamo con indici fondamentali per la vita della gente come quello dell’aspettativa di vita, di benessere dei bambini, di malattie mentali, di obesità, di criminalità, di risultati scolastici dei giovani, di mobilità sociale, scopriamo che non viene fuori quasi nulla di significativo, perché i dati sono molto simili tra di loro. Il discorso invece cambia drammaticamente se invece del Pil prendiamo gli indicatori di diseguaglianza (tra cui il famoso ‘Indice di Gini’), perché scopriamo grandi differenze in quegli indici fondamentali all’interno di questi stessi Paesi.

In altre parole, in termini di aspettativa di vita, di salute, di capitale umano, di capabilities (direbbe Amartya Sen), c’è molta più differenza tra un impiegato inglese e una donna inglese di origini caraibiche con lavoro precario, di bassa educazione, che vive in quartieri poveri di Londra e magari single–mother (madre sola), che tra un impiegato inglese e uno peruviano. Una differenza che, poi, diventa ancora più piccola se confrontiamo un top manager inglese con uno sudamericano. La diseguaglianza è un grave male pubblico, di cui soffre l’intera popolazione di un dato Paese, inclusa – come dicono molti dati recenti – anche la classe più ricca, perché con la diseguaglianza aumenta l’invidia sociale, la mentalità posizionale, l’insicurezza, e l’infelicità di tutti.

Quindi, venendo all’oggi dell’Italia e dell’Europa,  
chi ama veramente il bene comune e lavora per la vera ripresa economica,
deve preoccuparsi un po’ meno di Pil 
e assai più di fare in modo di ridurre la diseguaglianza.

Se continueremo a tassare il lavoro, la benzina, le prime case, 
ad alzare le imposte indirette e a non tassare i grandi patrimoni,
le rendite finanziarie e le rendite di ogni natura 
(comprese quelle di posizione delle tante categorie feudali protette), 
continueremo a guardare gli indicatori sbagliati,
a confondere gli effetti con le cause, a misurare cose che ci distraggano
dalle grandi sfide del momento cruciale che stiamo vivendo.

La speranza risiede soprattutto nei giovani, che hanno una minore tolleranza per la diseguaglianza: dalla loro sdegnata non rassegnazione può iniziare una nuova stagione economica e sociale, dove l’égualité, non solo formale ma sostanziale, torni ad essere uno dei grandi valori della nostra civiltà.


di Luigino Bruni
(da Avvenire del 16 settembre 2012)














"Se una libera società non può aiutare i molti che sono poveri, 
non dovrebbe salvare i pochi che sono ricchi". 
John Fitzgerald Kennedy




"Se vuoi salire fino al cielo 
devi scendere fino a chi soffre 
e dare la mano al povero". 
Anonimo




A Pantelleria, 
le Piccole sorelle dei poveri e i volontari 
assistono gli anziani.
Sull’isola di Pantelleria, in provincia di Trapani, don Francesco Fiorino, direttore della fondazione San Vito, in diocesi di Mazara del Vallo, con le suore Poverelle e alcuni volontari, portano avanti un progetto “porta a porta” per spesa, pulizie e compagnia agli anziani dell’isola, per lo più con figli emigrati o lontani. Finora il servizio raggiunge 80 di loro.
Una piccola grande storia invisibile di amore quotidiano.



Piccole Sorelle dei poveri
Assistenza Anziani

Via Dante Alighieri, 77
91107 Pantelleria (TP)
Tel. 0923 1892650

martedì 18 settembre 2012

Un'economia diversa è possibile?

DISTRIBUTISMO  O DISTRIBUZIONISMO


Il Distributismo è un modello economico-sociale e politico 
elaborato negli anni ’30 del secolo scorso da G. K. Chesterton e Hilaire Belloc
due esponenti di rilievo della cultura inglese, 
e poi evolutosi nel corso del tempo in aderenza ai cambiamenti della società.
 


 
In sintesi, il Distributismo propone 
un modello di società alternativo a capitalismo e socialismo
rifiutando la separazione tra lavoro e proprietà dei mezzi di produzione 
sostenuta dal capitalismo 
e l’ugualitarismo massificante e lo statalismo propugnati dal socialismo. 
 
Il Distributismo promuove quindi la centralità della proprietà privata 
e l’unione tra lavoro e possesso dei mezzi di produzione 
ed incentiva la massima diffusione e distribuzione della proprietà 
secondo i meriti e le capacità di ciascuno
 
E’ profondamente contrario alla finanziarizzazione dell’economia
mettendo il lavoro e non la speculazione finanziaria al centro del sistema produttivo
 
E’ per un denaro che nasca di proprietà dei cittadini e della comunità
direttamente od attraverso lo Stato, 
e non venga invece emesso dall’oligarchia finanziaria, 
come debito  verso Stati e cittadini, come succede oggi. 
 
E’ per un mercato che sia davvero libero 
dai monopoli delle grandi concentrazioni industriali-finanziarie 
e che consenta il massimo sviluppo dell’iniziativa individuale e sociale.
 
Il Distributismo si ispira ai valori della Dottrina Sociale della Chiesa 
ma non è in alcun modo un sistema confessionale 
e si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, 
indipendentemente dal loro colore politico o religioso.
 
Riteniamo pertanto che, nel desolante panorama dello scenario politico attuale, 
privo di proposte serie e consistenti, 
il Distributismo possa dare un contributo significativo 
per risolvere i tanti e gravi problemi che assillano la vita del cittadino medio 
- a cominciare dalle tasse esose, dalla perenne instabilità economica, 
dal debito pubblico e dalla cronica perdita di potere d’acquisto dei salari -
superando le sterili contrapposizioni ideologiche tra destra e sinistra 
e proponendo soluzioni concrete che intercettino i bisogni fondamentali dei cittadini: 
 
poter guardare al lavoro come ad un mezzo di realizzazione individuale e sociale, 
non essere più schiavi del denaro ma utilizzare il denaro 
per far fruttare le proprie potenzialità personali, 
avere tempo libero da dedicare ai propri interessi culturali 
ed ai rapporti familiari ed amicali.
 
Non si tratta di un’utopia 
ma di rimettere il senso comune e la retta ragione al centro dell’azione politica.
 
(tratto da "cooperator-Veritatis")
 
 

Il distributismo e la crisi economica


Intervista a John Medaille su come creare un mercato veramente libero

di Annamarie Adkins


IRVING (Texas) martedì, 5 ottobre 2010 (ZENIT.org).
In un periodo in cui le misure di salvataggio delle imprese si sono rivelate un flop, in cui la classe dirigente sembra confusa, mentre la crisi economica non dà segni di regredire, la gente cerca delle alternative rispetto alla saggezza convenzionale.

L’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate” è stata come una manna per il cosiddetto movimento economico alternativo, e almeno una delle teorie economiche derivate dalle encicliche sociali, quella del distributismo, sta riscuotendo un certo interesse.

Ma molti sono scettici e considerano il distributismo meramente come una specie di agrarianismo romantico, o peggio ancora, solo come un approccio estetico privo di possibili applicazioni pratiche.

John Medaille, uno dei preminenti neo-distributisti, ha cercato di rispondere a queste critiche. Il risultato è un manifesto distributista intitolato “Toward a Truly Free Market: A Distributist Perspective on the Role of Government, Taxes, Health Care, Deficits, and More” (ISI), che non poteva essere più puntuale, mentre i governi in tutto il mondo lottano contro la crisi sociale e fiscale.

Medaille , co-redattore di The Distributist Review, che pubblica su Internet, nonché docente aggiunto dell’Università di Dallas, ha spiegato a ZENIT cosa manchi all’attuale teoria economica e perché il distributismo meriti un rinnovato apprezzamento.

Il suo libro inizia esaminando gli assunti fondamentali di ciò che generalmente viene chiamata “economia”. Quali sono questi assunti? Sono questi la causa dell’attuale crisi economica globale?
Medaille:  I due assunti principali dell’economia di oggi – peraltro entrambi errati – sono che l’economia sia una scienza fisica anziché una scienza umana, e che come tale non ha nulla a che vedere con le questioni etiche.

Sin dalla fine del XIX secolo, l’economia ha cercato di contrapporsi alla giustizia, soprattutto alla giustizia distributiva, ma così facendo ha perso la capacità di descrivere in modo accurato ogni economia di oggi. Quindi non dovrebbe sorprendere che il 90% degli economisti non si sono accorti dei segnali dell’imminente crollo.

Lo stesso è vero per la precedente crisi e per quella ancora precedente, ecc.

Non è possibile prevedere in modo attendibile lo svolgimento di un sistema, se non si è in grado di descriverlo in modo adeguato.

Il distributismo, d’altra parte, asserisce che la giustizia non sia solo un problema morale, ma anche un problema pratico ed economico, e che senza la giustizia economica non è possibile raggiungere l’equilibrio. Quando l’economia si separa dalla giustizia, il governo è costantemente pressato ad intervenire per assicurare stabilità, sebbene gli interventi possano essere efficaci solo nel breve periodo.

Noi abbiamo abbandonato la giustizia su scala globale e questo ha portato a un commercio cronicamente squilibrato. Quando gli scambi sono cronicamente squilibrati non è un vero commercio. Si tratta piuttosto di un sistema in cui i produttori esteri finanziano il nostro consumo dei loro beni, un sistema che impoverisce entrambe le parti.

La maggior parte delle persone crede che la battaglia per l’anima del capitalismo si giochi tra i seguaci di Keynes e i seguaci di Hayek. Secondo lei, invece, entrambe le teorie portano a ciò che Hilaire Belloc ha definito lo “Stato servile”. Perché? Cosa non hanno capito gli altri?
Medaille:  Il capitalismo e il socialismo in realtà non sono teorie opposte; l’una è la continuazione dell’altra, mentre il distributismo si oppone ad entrambe: è il libero mercato.

Il capitalismo tende a concentrare la proprietà nelle mani di pochi, strozzando così il mercato, e il socialismo prosegue quest’azione concentrando la proprietà nelle mani dello Stato. In pratica entrambi i sistemi finiscono per controllare le più importanti risorse della nazione nelle mani di pochi burocrati – über-manager – che rappresentano gli interessi dei proprietari nominali, siano essi gli azionisti o il popolo in generale, che tuttavia controllano queste risorse in funzione del proprio bene.

Inoltre, nel concentrare il potere economico essi concentrano anche il potere politico e le grandi società riescono ad ottenere grandi privilegi e sussidi per se stesse, come abbiamo visto durante la crisi. Quindi, tra l’elefantismo statale e l’elefantismo del settore privato, l’individuo è ridotto a uno stato servile.

Ciò che manca sia al capitalismo che al socialismo è la volontà di ammettere che alla proprietà consegue il potere. Entrambi i sistemi affermano di creare libertà attraverso la concentrazione del capitale, ma poiché questo provoca anche la concentrazione del potere, la massa della gente rimane priva di potere.

D’altra parte, il distributismo cerca di costruire una società basata sulla proprietà di uomini e donne liberi e consapevoli dei propri diritti, e dotati degli strumenti per difendersi dalle tendenze accentratrici sia dello statalismo sia del corporativismo.

Cos’è dunque il distributismo? La differenza tra capitalismo e socialismo non riguarda solo la redistribuzione o la suddivisione? Come può questa teoria, che si fonda comunque su un certo grado di intervento dello Stato, creare un mercato veramente “libero”?
Medaille:  In effetti non è tanto una questione di cosa lo Stato debba fare, ma di cosa debba non fare.

L’accumulazione della proprietà solitamente dipende dal potere pubblico: maggiore è la quantità di capitale, maggiore sarà lo spessore delle mura statali necessarie a proteggerlo.

Esistono certamente cose positive che lo Stato può fare, per esempio con la politica fiscale o semplicemente facendo rispettare le sue leggi contro il monopolio e l’oligopolio. E vi sono casi in cui persino il titolo alla proprietà terriera o di altre risorse è questionabile.

Ma in generale, una società distributiva richiede uno Stato più snello, con poteri che siano opportunamente distribuiti su tutti i livelli della società.

Contrariamente ai sistemi di concentrazione del potere economico e politico, quello distributista si fonda su una varietà di forme di piccola proprietà al fine di distribuire il potere: singoli proprietari per possedimenti che possono essere usati e gestiti facilmente da una persona o famiglia, cooperative per imprese più grandi, proprietà pubbliche locali per risorse come l’acqua o i sistemi fognari, azionariato dei dipendenti nei casi appropriati, e così via.

In questo modo, sia il potere economico che quello politico viene distribuito su tutti i livelli della società. Esistono in realtà solo due possibilità riguardo alla proprietà e al potere: concentrazione o distribuzione.

La prima porta al servilismo, la seconda alla libertà.

Come si configura una società distribuista? Esiste qualche esempio nel mondo?
Medaille:  Ottima domanda! Quando parliamo di sistemi economici, è sempre bene non affidarsi esclusivamente alla teorizzazione astratta, ma fare riferimento a sistemi concreti e funzionanti.

Per esempio, il capitalismo puro, come il comunismo puro (al di là del contesto monastico) non hanno mai funzionato e non esistono esempi attuali. Il capitalismo è sempre stato imposto e sostenuto dal potere statale, mentre il socialismo ha sempre dovuto consentire un certo grado di libertà di mercato per poter funzionare.

Il distributismo, invece, può mostrare l’esempio di diversi modelli di lavoro, sia di grandi che di piccole dimensioni. Esiste la Mondragón Cooperative Corporation, in Spagna, la cui proprietà è distribuita tra 100.000 dipendenti e che fattura 25 miliardi di dollari (19 miliardi di euro); esiste la realtà cooperativa della regione Emilia-Romagna, in cui il 40% del PIL deriva dalle cooperative; esistono migliaia di piani di azionariato dei dipendenti (ESOP), di cooperative, società di mutua assicurazione e cooperative finanziarie.

La verità storica è che il distributismo passa da un successo all’altro, mentre il capitalismo inciampa su un salvataggio dopo l’altro.

Ciò che è particolarmente interessante è che una società distributista come Mondragón è stata in grado di fornire la propria rete di sicurezza sociale, sistemi scolastici, istituti di formazione, centri di ricerca e sviluppo, e di università, tutto con i propri fondi e senza sussidi statali.

Si tratta di una realtà molto più vicina all’ideale liberale, rispetto a quanto sia stato prodotto da qualunque laissez-faire.

Offrendo soluzioni pratiche per i gravi problemi economici di oggi, il suo libro cerca di rispondere ai numerosi critici del distributismo che lo ignorano per la sua supposta impraticabilità o il suo neograrianismo. Quali sono i principi fondamentali o gli elementi costruttivi che un distributista usa per confrontare ed elaborare politiche alternative?
Medaille:  I principi fondamentali del distributismo sono la sussidiarietà e la solidarietà.

Per sussidiarietà intendiamo che i più bassi livelli della società, a partire dalla famiglia, sono quelli più importanti e quelli in cui deve risiedere il maggior grado possibile di autorità decisionale e di potere. I livelli più alti si giustificano solo per l’aiuto che riescono a dare a quelli inferiori.

La solidarietà implica che ogni decisione politica debba tenere a mente i più poveri e i più vulnerabili membri della società.

La sussidiarietà è difficile da realizzare in una situazione di accentramento del potere; solo attraverso la diffusione del potere economico e politico (e questi sono solo due diversi aspetti del medesimo potere) è possibile per le comunità locali e le famiglie di prosperare.

Il distributismo ha delle basi nella dottrina sociale cattolica o nelle encicliche come la recente “Caritas in veritate”?
Medaille: La sussidiarietà e la solidarietà derivano, ovviamente, direttamente dalle encicliche sociali e il distributismo deve molto ai loro ideatori cattolici come G. K. Chesterton e Hilaire Belloc.

Detto questo, l’ordine sociale distributista non dipende da un propedeutico ordine sociale cattolico. Tuttavia, riteniamo che un tale ordine sociale gioverebbe molto da un sistema distributista.

Ci può riassumere brevemente la soluzione distributista all’apparentemente irrisolvibile problema dell’assicurare al maggior numero possibile di persone un’assistenza sanitaria adeguata?
Medaille: Il nostro Paese ha appena attraversato un dibattito piuttosto avvelenato su questo argomento, in cui si è discusso di una artificiosa distinzione tra sistema socialista e sistema di mercato, mentre la vera questione è rimasta completamente all’oscuro.

La realtà è che nell’assistenza sanitaria questa distinzione non esiste. Lo Stato già paga il 45% dei costi sanitari complessivi, mentre il mercato “privato” è di fatto dominato da monopoli tutelati dallo Stato attraverso autorizzazioni, licenze e certificazioni per la costruzione di nuove strutture sanitarie.

L’evidenza dell’esistenza di un mercato monopolistico è dato dal costante aumento dei prezzi, anche in presenza di una riduzione dei servizi, e questa è la realtà del nostro settore sanitario.

Ora, il distributismo non avrebbe grande utilità se non fosse in grado di risolvere problemi concreti come questo, ma lo può fare.

In breve, nel libro propongo un’espansione delle autorità autorizzatrici, per aumentare l’offerta di personale sanitario; propongo un modo per espandere la ricerca e lo sviluppo senza ricorrere a forme monopolistiche; propongo inoltre la formazione di cooperative di medici e di altro personale in grado di servire sia come società di “assicurazione” sia come ditte sanitarie in cui venga assicurata la salute oltre ad affrontare semplicemente la malattia.

Certamente il libro entra molto nel dettaglio su questi aspetti, ma – sì – il distributismo offre una nuova via per molti dei più pressanti problemi.
 
(tratto da "Zenit")
 

giovedì 13 settembre 2012

Disprezzo le potenze di questo mondo

COSA DUNQUE DOVREMMO TEMERE?

Molti marosi e minacciose tempeste ci sovrastano, 
ma non abbiamo paura di essere sommersi, 
perché siamo fondati sulla roccia. 




Infuri pure il mare, non potrà sgretolare la roccia. 
S'innalzino pure le onde, non potranno affondare 
la navicella di Gesù. 

Cosa, dunque, dovremmo temere? 
La morte? 
«Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21).
Allora l'esilio? 

«Del Signore è la terra e quanto contiene» (Sal 23,1).
La confisca de beni? 
«Non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via» (1Tm 6,7). 

 Disprezzo le potenze di questo mondo 
e i suoi beni mi fanno ridere. 

Non temo la povertà, non bramo ricchezze,
non temo la morte, né desidero vivere, 
se non per il vostro bene. 
È per questo motivo che ricordo le vicende attuali 
e vi prego di non perdere la fiducia.

Non senti il Signore che dice: 

«Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, 
io sono in mezzo a loro»? (Mt 18,20). 
E non sarà presente 
là dove si trova un popolo così numeroso, 
unito dai vincoli della carità? 

Mi appoggio forse sulle mie forze? 
No, perché ho il suo pegno, ho con me la sua parola: 
questa è il mio bastone, la mia sicurezza, 
il mio porto tranquillo.  
Anche se tutto il mondo è sconvolto, 
ho tra le mani la sua Scrittura, leggo la sua parola. 
Essa è la mia sicurezza e la mia difesa. 
Egli dice: «Io sono con voi tutti i giorni 
fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Cristo è con me, di chi avrò paura? 




Anche se si alzano contro di me 
i cavalloni di tutti i mari o il furore dei principi, 
tutto questo per me vale di meno di semplici ragnatele. 

...Ripeto sempre: «Signore, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42). 
Farò quello che vuoi tu, 
non quello che vuole il tale o il tal altro. 
Questa è la mia torre, questa la pietra inamovibile, 
il bastone del mio sicuro appoggio. 
Se Dio vuole questo, bene! 

Se vuole ch'io rimanga, lo ringrazio. 
Dovunque mi vorrà, gli rendo grazie.

  SAN GIOVANNI CRISOSTOMO 


"L’avaro è colui che vive da povero 
per paura della povertà".
                          (Anonimo)


Fortaleza, Casa accoglienza
Maria Mae da vida.

Centro medico di assistenza e prevenzione 
alle vittime della prostituzione minorile 
Maria Mae da vida’ (Maria Madre della vita).




A Fortaleza, in Brasile. Dopo Rio de Janeiro, 
maggior destinazione del turismo sessuale, 
con estesa prostituzione minorile.

Presidio medico e di formazione professionale. 
Per le giovanissime delle favelas siamo un’alternativa affidabile. Circa 600 quelle assistite finora, molte per gravidanze precoci.
 
http://www.chiediloaloro.it/le-opere/4