san Paolo

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D’improvviso lo avvolse una luce dal cielo (At 9,3)

martedì 31 marzo 2015

La storia di Daniele e Simona


"Ho toccato con mano 
che la fede è una cosa concreta, 
che vivi e respiri tutti i giorni"


Daniele

Sono arrivato in Comunità Cenacolo perché sono stato un tossicodipendente, sono stato per tanti e tanti anni a bagno nel male e per tanti anni mi sono drogato. 

Vengo da una famiglia semplice, normale, sono un figlio unico e sento di dire che non mi è mancato niente nella mia vita, niente dei beni materiali; ho avuto l’amore dei miei genitori, ho avuto tutte le cose che un figlio può chiedere, anche troppo, però sono arrivato a drogarmi, a urlare la mia disperazione per tanti motivi. 

Uno di questi era la tanta solitudine che ho vissuto nella mia adolescenza, nel mio passato, anche perché forse ho conosciuto solo un tipo d’amore, che è l’amore che ti danno i genitori, amore umano, importante, ma non ho mai voluto conoscere e non ho mai conosciuto l’amore che ti può dare Gesù, che ti può dare Dio. I miei genitori sono cristiani e hanno cercato di trasmettermi, di insegnarmi la fede, anche con il loro esempio, ma io l’ho sempre rifiutata e l’ho sempre vista come una cosa inutile. 

Così poi, come tutti i ragazzi che sono in Comunità, ho iniziato il mio cammino verso il male, ho iniziato prima con le droghe leggere come se fosse un gioco: volevo fare qualcosa di diverso, riuscivo a vincere la mia timidezza e le mie paure, ero più spigliato. Poi piano piano il male mi ha preso in questo circolo e sono passato per varie situazioni, in tutti i punti dove ti porta il male a fare uso di droghe pesanti. Anche lì all’inizio lo vedevo come un gioco, e quando mi sono accorto che non era un gioco era tardi, ero già dentro, ma per orgoglio e paura ho continuato. 

Apparentemente ho sempre fatto una vita normale, lavoravo e vivevo con i miei, non facevo niente di strano, però mi drogavo. Per tanti anni ho avuto questa doppia faccia, di bravo ragazzo di giorno e di sera cambiavo e diventavo un tossico a tutti gli effetti, subivo questa mutazione. Per tanto tempo ho tenuto questa maschera, non sapevo più chi ero, perché quando sei nel male e nella droga cerchi anche di dividere i tuoi genitori: al padre dici una cosa, alla mamma dici un’altra cosa e ti comporti diversamente, e così riesci ad ottenere da tutti e due quello che tu vuoi. Oltre al male che ho fatto a loro, ho cercato di dividerli, perché con papà sapevo i suoi punti deboli e puntavo lì e con mamma anche, solo per ottenere da loro più soldi. Anche adesso, dopo tanti anni di Comunità, ascoltare questi genitori mi ha fatto pensare al tanto male che ho fatto loro, ed è vero: la droga divide. Siamo noi per primi, noi drogati che cerchiamo di dividere. 

Però, grazie a Dio, i miei genitori hanno conosciuto la Comunità e in quel momento li ho rivisti uniti quando mi hanno detto: “Tu in casa non entri più, hai già fatto troppo male a te stesso, agli altri, a noi e adesso se vuoi cambiare la tua vita devi entrare in Comunità, se no vai fuori”. Lì il male mi teneva ancora in pugno e ho pensato che potevo farcela da solo; sono andato via di casa e invece sono andato sempre più giù, ho vissuto via per un po’ di mesi scavandomi quasi la fossa. 

Poi - ringrazio sempre per questa cosa - ho combinato una stupidata fuori e sono finito in carcere per 5 giorni, grazie a Dio, e quando sono uscito ho chiamato i miei e ho chiesto aiuto, perché alla fine erano le uniche persone a cui potevo chiedere aiuto. Loro mi hanno proposto la Comunità Cenacolo, ma in cuor mio ho detto: “Sto lì un po’ di mesi, mi sistemo un po’ e poi esco e di nuovo”: era una scappatoia. Già dal primo giorno però ho avuto la sensazione di essere arrivato a casa mia, lo dico sempre. Sono entrato il 21 gennaio e ho sentito subito una sensazione nel mio cuore: “Sono a casa”, e di lì è iniziata la mia nuova vita. 

Sono rinato da quel giorno lì perché, nonostante le prime difficoltà che si hanno all’inizio, mi sono sempre sentito bene, a casa e voluto bene, ed è stato bello perché un passo dopo l’altro la Comunità mi ha fatto il dono più grande, che è quello della fede. Ho sempre visto la fede come una cosa astratta che sta in alto sulle nuvole, invece qui ho toccato con mano che la fede è una cosa che respiri tutti i giorni, che è concreta, che parte al mattino da quando ti alzi e vai in cappella a pregare il rosario, e va avanti tutto il giorno col lavoro, con lo stare coi ragazzi… avevo bisogno di toccarla con mano e me l’ha fatta toccare Elvira, perché Elvira ci dice, quando entriamo in Comunità, che non dobbiamo subito iniziare a credere, dobbiamo solo fidarci di lei, perché all’inizio crede lei per noi e prega lei per noi. Questo mi ha colpito: non sapeva chi fossi, non sapeva da dove venissi, però si mette in ginocchio per me e si fida di me. Ho subito toccato con mano questa fiducia disinteressata, questo amore di Gesù, l’ho visto negli occhi e nei fatti di Elvira, dei suoi collaboratori e dei ragazzi che mi hanno aiutato. 

Andando avanti in questo cammino ho incontrato mia moglie. Anche lì è stato un altro segno dal cielo perché prima di conoscere mia moglie ero arrivato ai fatidici 3 anni di Comunità, che è il periodo in cui uno inizia a pensare di uscire, di andare avanti fuori. Quest’idea c’era, ma Elvira mi ha colpito perché mi ha detto: “Sei libero di fare le tue scelte e la tua vita, però sai che la Madonna ha un bel disegno per te e tu devi solo continuare a pregare e a fidarti.” Anche lì, grazie a Dio e grazie a Maria, l’ho ascoltata e Maria mi ha donato Simona che è diventata poi mia moglie. È bello perché posso vedere tutti i passaggi in cui il Signore ha guidato la mia vita, la nostra vita in Comunità. Ho conosciuto Simona, ci siamo fidanzati, e io avevo l’idea del fidanzamento come è fuori, non ho mai vissuto un fidanzamento pulito, invece anche la proposta che ci ha fatto la Comunità di incontrarci prima di tutto nella preghiera ci ha aiutato. Noi ci incontravamo tutte le sere all’1, io in cappella in Casa Madre a Saluzzo e lei in cappella a Savigliano, ci parlavamo tramite Gesù, c’era Lui al centro dei nostri progetti e richieste, e così con questa preghiera e con questa fiducia nella Comunità siamo arrivati al matrimonio. Ora vi racconta mia moglie. 




Simona

Buonasera, sono Simona! Grazie per essere qui con voi, ringrazio Dio per il dono della Comunità Cenacolo perché giorno dopo giorno mi ha donato una qualità di vita infinitamente superiore a quella che facevo prima. 

Anche se non mi sono mai drogata, sono arrivata in Comunità alla ricerca di qualcosa di più che ho cercato in tante forme di divertimento fuori, anche nel lavoro, forme di soddisfazione professionale, viaggi, tante cose che però non mi portavano da nessuna parte. Quando sono arrivata in Comunità, anche io come mio marito - ci siamo conosciuti a Medjugorje per la prima volta - ho sentito di essere finalmente arrivata a casa. 

È stato bello quando ci siamo conosciuti e poi abbiamo iniziato a fare quest’amicizia che ci ha portato poi al matrimonio. Tra le prime cose condivise abbiamo detto che ci sentivamo veramente a casa, per cui tutto quello che è arrivato dopo è stato una scelta che è partita dal desiderio forte e dal grande amore che il Signore aveva messo nei nostri cuori per la Comunità Cenacolo, la nostra famiglia, la nostra casa. Da lì è partito tutto. 

Abbiamo voluto vivere il fidanzamento in modo cristiano, poi siamo arrivati al matrimonio; dopo un anno e mezzo di matrimonio non arrivavano figli biologici, naturali, allora abbiamo alzato gli occhi al cielo e chiesto a Lui che cosa volesse per noi, per dire che la nostra vita e la nostra famiglia per scelta libera erano nelle sue mani. Per la prima volta tutti e due, prima personalmente, poi come famiglia avevamo l’unico desiderio di fare la volontà del Signore, capire cosa il Signore ci stava chiedendo. Piano piano nella preghiera è emerso questo desiderio nostro di volere una famiglia grande con tanti bambini, questo amore grandissimo che avevamo nel cuore, che abbiamo ricevuto in Comunità e in questo stato d’animo aperto alla vita, bello, consapevole di essere in un’opera grandiosa di Dio che è la Comunità Cenacolo è arrivata la chiamata di accogliere questi bambini speciali. 

Ricordo che la prima cosa che mi è venuta nel cuore l’ho condivisa a Daniele: “Dani, è vero, ci sono tanti bambini in missione a cui donare l’amore, da accogliere, che hanno bisogno di una mamma e papà, però nel cuore sento forte questo desiderio di accogliere i bambini che nessuno vuole”. Ce l’aveva messo il Signore questo desiderio, non sapevo bene cosa volesse dire questo. Poi siamo andati da Elvira per capire bene, e lei ci ha detto: “Fate 1 anno di silenzio, non parlatene tra di voi, pregate solo, e poi fra 1 anno vedremo: se tutto viene da Dio, questa cosa bella che ha messo nel vostro cuore porterà frutto.” Infatti in quell’anno abbiamo capito che questi bambini che nessuno vuole erano bambini speciali, erano i bambini disabili. 

Quando abbiamo realizzato che questo era il disegno di Dio per noi ci siamo un po’ spaventati perché abbiamo detto: “Mamma mia, noi siamo proprio dei poveracci, saremo in grado? Non sappiamo niente di questi bambini”, però nella preghiera abbiamo ricevuto la grazia del coraggio di iniziare questo cammino, perché, ripensandoci, gli ostacoli e le barriere che ci sono stati fra noi e i bambini sono stati davvero tanti. Andavi nel tribunale e ti dicevano: “No, perché lui è stato tossico, vivete in Comunità e non prendete lo stipendio, come fate a mantenete questi bambini? Perché proprio bambini disabili? Siete ancora giovani, non avete nessun figlio, perché il desiderio di adottare questi bambini qui?”. Ci mettevano di fronte tutte le cose vere, anche giuste a cui potevamo andare incontro, però avevamo dentro questo coraggio, questa forza che adesso riconosco essere una grazia di Dio, non veniva da noi. 

Finalmente ci hanno aperto le porte per accogliere il nostro primo figlio, Omar, l’abbiamo preso che aveva 1 anno e mezzo. Uno dava il suo da fare, se vuoi seguirlo bene e ti dedichi totalmente, però non volevamo lasciarlo da solo ed eravamo aperti ad accogliere quello che il Signore ci chiedeva, i figli che Lui ci mandava. Così ci hanno chiamato per Chiara, che è una bimba che ha la sindrome di Down e poi è arrivato anche Francesco, che è un bimbo che ha gli stessi problemi di Omar e non si sa se camminerà. Sono tre bambini stupendi, sono la nostra gioia e per noi è bellissimo vivere in una Comunità come questa dove Gesù Risorto è al centro di tutto, e che vediamo operare guardando i ragazzi che sono entrati da poco e che piano piano rinascono. Sei immersa nella Risurrezione di Dio in ogni momento e vedi anche i nostri figli, che erano quasi morti perché vivevano la sofferenza dell’abbandono, con tanti problemi di salute che sarebbero difficili da portare per un adulto, vedere che ritornano a vivere: sparisce quell’ansia, quell’angoscia di essere soli al mondo, si sentono voluti bene, non si sentono guardati come marziani quando escono da casa perché tutti i ragazzi e le ragazze li accolgono - perché sono stati emarginati prima di tutto loro, per cui accogliere i nostri bambini è una cosa normale – e questo li fa sentire più vicini alla normalità. 

Vivere tutto questo quotidianamente, tutto questo amore, questa luce ogni giorno è un miracolo grandissimo. Tempo fa ho avuto il dono di andare a vedere la Sindone. È stato bello, ho pensato tante volte alla storia della Sindone perché mia mamma era proprio appassionata, per cui fin da piccola ne sentivo parlare. Trovarmi lì davanti mi ha colpito tanto, vedere tutti i segni visibili che si vedono su Gesù, ma soprattutto vedere il dorso, la flagellazione di quest’uomo dal capo ai piedi: non c’era 1 mm del suo corpo che non fosse stato flagellato, e davanti c’era Omar con la sua macchinina elettrica; è passato sotto la Sindone e c’era anche mio marito. Mi è venuta questa preghiera: “Guarda Gesù, un po’ di quella flagellazione loro l’hanno vissuta e ce l’hanno ancora sulla pelle”. Però, guardando la Sindone non vedevo solo l’uomo crocifisso, ma ho visto la Risurrezione di quell’uomo, quell’esplosione di luce che ha impressionato su quel lenzuolo tutta quella sofferenza, e dopo la sofferenza c’è stata proprio la risurrezione. È lì che mi sono fermata e ho detto: “Sì, credo veramente che tutta la sofferenza che vedo nei miei figli, che portano le loro piccole e grandi croci tutti i giorni, e quella che condividiamo con loro ha senso proprio nell’esplosione di luce di questa Risurrezione. 

Davvero in Comunità Cenacolo respiriamo e viviamo questo ogni momento. E questa è la cosa bella che ci ha convinto a dire sì, a rimanere qui e non spostarci più, perché la luce che viviamo qui è fatta di questa risurrezione. Ci rendiamo conto che purtroppo nel mondo c’è tanto buio, e preghiamo tante volte che tante persone che hanno vissuto e tanti bimbi che sono senza genitori, tante persone che sono nella disperazione incontrino questa luce, quest’esplosione di luce di Gesù, della sua Risurrezione che abbiamo incontrato noi e che viviamo quotidianamente. Grazie.

venerdì 27 marzo 2015

La storia di Zach Sobiech


La canzone delle nuvole



Zach Sobiech nasce nel 1995, in Minnesota, e cresce in una famiglia credente, cattolica e ricca di valori. La sua è un’esistenza normale, di quelle che desideri per i tuoi figli: una bella scuola, amici sani, e via dicendo. 

Zach cresce nella spensieratezza dei suoi 14 anni, quando un dolore fisico rivela una verità agghiacciante: un osteosarcoma sta attaccando il suo corpo. È una forma di tumore osseo, che a noi italiani probabilmente ricorda il luminoso calvario di Chiara Luce Badano, proclamata Beata il 25 settembre 2010.

Così il ragazzo comincia la sua lotta, mai perdendo il sorriso, diventando un esempio di luce per molti, non tanto per la sua caparbietà in contrapposizione alla morte, quanto per la sua tenacia nel vivere la vita, qualunque essa sia, trasformandola in un capolavoro. 

Dieci operazioni chirurgiche e venti cicli di chemioterapia non sono serviti per tenere Zach sulla terra. È nato in Cielo il 20 maggio 2013, qualche giorno dopo aver compiuto 18 anni, ed è rinato in mezzo a quelle nuvole che aveva cantato qualche mese prima. 

Quando i medici, verso metà 2012, gli dissero che purtroppo gli restava poco da vivere, Zach ha scelto di celebrare la vita: da sempre appassionato di musica, ha scritto un brano, “Clouds”, nuvole, nel quale racconta il suo futuro: “Andremo su, sempre più su, ma io volerò un po’ più in alto. Andremo nelle nuvole, perché lì la vista è più bella”, recita la il testo di Clouds, pubblicata su Youtube nel dicembre del 2012 e cliccata da milioni di persone.

Zach, poco prima di morire, accettò di essere protagonista di un video, in cui poté raccontare la sua passione per la vita, per le cose che veramente contano, finendo per lasciare una testimonianza di altissimo livello. Intervistato, afferma: “Voglio che tutti sappiano che non hanno bisogno di sapere che stanno per morire per iniziare a vivere”.




SCRITTO DA DON GIACOMO PAVANELLO (da www.nuoviorizzonti.org)










mercoledì 25 marzo 2015

La storia del piccolo Rafael Freitas


IL SOGNO DI UN BIMBO DI 3 ANNI 
CHE COMBATTE IL TUMORE CON LA MESSA

combatte il tumore


Rafael Freitas è un bambino brasiliano di tre anni che ama “celebrare” quotidianamente la Santa Messa e che un giorno vorrebbe diventare, perché no?, Papa. Purtroppo questa sua particolare devozione non è l’unica cosa che lo sottrae alla normalità di un bambino della sua età. Al piccolo Rafael è stata infatti diagnosticata una forma aggressiva di tumore.

La storia di devozione alla Messa di Rafael inizia quando, ad appena un anno, a malapena in grado di camminare, il bambino incominciò ad identificarsi ed imitare il sacerdote nelle varie occasioni in cui la famiglia Freitas partecipava alla celebrazione della Messa. «Quando il sacerdote alzava il calice, Rafael alzava la sua piccola ciotola», ha dichiarato il padre, Randersson Freitas alla CNA/EWTN News. Nel 2014, la terribile scoperta: i dottori diagnosticano al piccolo un tumore in fase avanzata che attacca le ossa e il sistema nervoso.

Iniziati i cicli di chemioterapia a marzo dello stesso anno, i dottori si sono subito dimostrati scettici di un possibile recupero. Rafael, affatto scoraggiato, ha continuato a “celebrare” Messa, chiedendo anche un quantomeno originale dono al sacerdote della Cappella ospedaliera: il piccolo piattino dorato che viene usato per tenere l’Ostia. Colpito da tale richiesta, il cappellano non solo ha esaudito il suo insolito desiderio ma gli ha regalato una piccola tunica ed una stola ad hoc. Il «regalo migliore»che suo figlio potesse ricevere, ha dichiarato il padre di Rafael. Da quel giorno, il bambino non ha fatto che aumentare le sue “celebrazioni”, che sono finite anche su Youtube, raccogliendo migliaia di visualizzazioni.




Contro apparentemente ogni possibilità e contro l’iniziale opinione dei dottori, quando già era stato spostato nell’ala ospedaliera per i malati terminali, grazie a tutti i trattamenti medici messi in campo e alle preghiere della famiglia e degli amici, è iniziata la ripresa di Rafael. Sebbene adesso anche i dottori nutrono della speranza che Rafael possa vincere la battaglia contro il cancro, come Davide contro Golia, la situazione è ancora -e forse più che mai- delicata. «Chiediamo a tutti i vescovi, sacerdoti, religiosi, laici e famiglie di pregare per Rafael», ha concluso il padre, «sappiamo che la guarigione di Rafael è nelle mani di Dio e speriamo in un miracolo».




da http://www.losai.eu

martedì 24 marzo 2015

Storia di Veronique Lévy



Lo stupore di Henri Lévy 
e la conversione al cattolicesimo 
della sorella Véronique

Special envoy Bernard Henri Levy holds media conference


La prima domenica di quaresima del 2012, nella cattedrale di Notre Dame, seduto su una della panche riservate alle famiglie dei catecumeni, c’era anche Bernard-Henri Lévy (foto a destra). Che cosa ci facesse in chiesa il filosofo d’origine ebraica simbolo dell’intelligentsia francese lo ha svelato solo recentemente Le Figaro. Lévy ha partecipato alla funzione in seguito della conversione al cattolicesimo della sorella minore Véronique.

«Mi sono reso conto – ha spiegato – che non era una cosa infantile, ma di un’esperienza interiore autentica». Véronique, la giovane anticlericale e femminista, che aveva sempre accusato la Chiesa di essere illiberale e oscurantista, è stata descritta dal fratello come una donna toccata dalla «redenzione» e «dal livello di conoscenza della teologia cristiana, ma anche ebraica, di cui un tempo non sapeva nulla». Spiegando di essere in parte addolorato per la decisione della sorella, Lévy ha però confessato che Véronique da fragile e instabile che era è diventata forte e sicura. «Che cosa avrebbero pensato i nostri genitori?», si è chiesto. «Durante il suo battesimo ho pensato che questo fatto li avrebbe dispiaciuti. Si tratta di una rottura, probabilmente mai provocata da nessuno nella discendenza più che millenaria dei Lévi», tanto da «sentirmi responsabile per aver omesso di trasmettere qualcosa a questa sorellina che potrebbe essere mia figlia».



«Vivere la fede è come innamorarsi»

MOSTRAMI IL TUO VOLTO. Chi è Veronique? A raccontarlo è sempre il quotidiano francese, spiegando che «vedendola per la prima volta per la strada, mentre fuma una Marlboro, bionda, esile, diafana, ha l’aria di essere la giovane Violaine di Claudel (la protagonista dell’Annuncio a Maria, ndr) scappata da teatro con qualcosa di infantile nell’espressione, nonostante il dolore abbia segnato la sua vita conferendo gravità al suo volto». Sembra timorosa, ma non appena «si entra nel cuore dell’argomento e l’argomento, insiste lei, è Cristo, prende sicurezza, si esprime fluentemente e anche con una certa autorità». A Le Figaro Veronique racconta «la sua avventura con il Crocifisso», mostrando il suo libro Montre-moi ton visage (“Mostrami il tuo volto”), una trascrizione dei suoi dialoghi interiori con Cristo davanti al Santissimo Sacramento, come una lunga conversazione amorosa. «Vivere la fede è come innamorarsi. Quando si ama qualcuno incondizionatamente, si sacrifica tutto per quell’amore, non ci si cura del giudizio altrui, si pensa solo a gioire della presenza dell’altro», dice Véronique.

IL PRIMO INCONTRO. La neo convertita ha ammesso che, inizialmente, non era sua intenzione pubblicare quei suoi dialoghi con Dio. Poi, convinta che oggi sia quanto mai necessario mostrare come Dio si manifesti «nella vita di tutto il mondo», ha accettato. Anche perché il suo primo “incontro” col cristianesimo è avvenuto molti anni fa quando, piccolissima, su una spiaggia affollata di Antibes, Coralie, una ragazza poco più grande di lei, le regalò un crocifisso insegnandole alcune preghiere. La piccola ebrea fu subito «colpita da quell’uomo con le braccia aperte sulla croce che non evocavano dolore, ma amore, un amore dolce e tenero, incondizionato e assoluto». Di questo sentimento, Véronique non parlò mai in famiglia: «Tu sei una principessa – le diceva il padre – porti un nome molto antico, aristocratico, il nome di una delle dodici tribù di Israele, della tribù di Levi. Non dimenticartene mai».




ORDA DI ANIME PERSE. Poi le cose cambiarono. A 12 anni la morte della nonna materna, a cui era profondamente legata, le provocò un’angoscia profonda che influì negativamente sulla sua esistenza. Erano gli anni in cui alla domanda su che cosa le fosse piaciuto diventare da grande rispondeva provocatoriamente: «La puttana». Furono anni difficili, trascorsi prima nel collegio dove l’avevano mandata i genitori, poi alla disperata ricerca di qualcosa che la soddisfacesse, dagli studi letterari al teatro, dai corsi infermieristici al design. In mezzo, tante storie d’amore frettolose, dal respiro breve. Furono gli anni in cui Veronique iniziò a frequentare un locale divenuto come una casa, «in cui mi accompagnavo a un’orda di anime perse alla deriva», ma che sentiva vicine perché «nel loro eccesso vivono una ricerca, il desiderio di un assoluto».

«LA MIA CASA». Fu allora che, quando ormai aveva toccato il fondo a causa della sua vita dissipata, incontrò padre Pierre-Marie Delfieux, fondatore della fraternità monastica di Gerusalemme, insediata a Saint-Gervais. «In poche settimane, Dio mi ha ricostruita», ha detto Veronique. Lo ha riconosciuto anche il fratello Bernard: «Nella vita di Véronique, c’è stato un corpo a corpo con il male, con un picco poco prima della sua conversione; ci furono anche grazia e redenzione: è diventata un’altra. La sua anima è cambiata».
Veronique ha scritto che «la Chiesa è un ospedale per le anime ferite, quelle che la psichiatria o la psicoanalisi non possono curare. Essa propone quello che il mondo secolare ha dimenticato: il perdono, la redenzione. Essa apre un cammino di libertà, scioglie i nodi. Il Signore non divide, ma unisce, dà un nome, ordina e quest’ordine è la bontà». Ora riconosce che quella Chiesa che prima accusava di misoginia, ha ricostruito «la sua femminilità danneggiata». È in questo nuovo inizio, spiega Veronique, che «ho trovato la mia casa».


di Benedetta Frigerio (http://www.tempi.it)

lunedì 23 marzo 2015

La storia di Chiara Corbella Petrillo



Mi chiamo Chiara, sono cresciuta in una famiglia cristiana che sin da bambina mi ha insegnato ad avvicinarmi alla fede.
Quando avevo 5 anni mia madre cominciò a frequentare una comunità del Rinnovamento dello Spirito e così anche io e mia sorella cominciammo questo percorso di fede che ci ha accompagnato nella crescita e mi ha insegnato a pregare e a rivolgermi in maniera semplice a Gesù come ad un amico a cui raccontare le mie difficoltà e i miei dubbi, ma soprattutto mi ha insegnato a condividere la fede con i fratelli che camminavano con me.

All’età di 18 anni in un pellegrinaggio incontrai Enrico e pochi mesi dopo ci fidanzammo.
Nel fidanzamento durato quasi 6 anni, il Signore ha messo a dura prova la mia fede e i valori in cui dicevo di credere.
Dopo 4 anni il nostro fidanzamento ha cominciato a barcollare fino a che non ci siamo lasciati.
In quei momenti di sofferenza e di ribellione verso il Signore, perché ritenevo non ascoltasse le mie preghiere, partecipai ad un Corso Vocazionale ad Assisi e lì ritrovai la forza di credere in Lui, provai di nuovo a frequentare Enrico e cominciammo a farci seguire da un Padre Spirituale, ma il fidanzamento non ha funzionato fin tanto che non ho capito che il Signore non mi stava togliendo niente ma mi stava donando tutto e che solo Lui sapeva con chi io dovevo condividere la mia vita e che forse io ancora non ci avevo capito niente!

Finalmente libera dalle aspettative che mi ero creata, ho potuto vedere con occhi nuovi quello che Dio voleva per me.
Poco dopo, contro ogni nostra aspettativa, superate le nostre paure, abbiamo deciso di sposarci.
Nel matrimonio il Signore ha voluto donarci dei figli speciali: Maria Grazia Letizia e Davide Giovanni, ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla nascita: ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani del Padre in una serenità e una gioia sconvolgente.

Ora ci ha affidato questo terzo figlio, Francesco che sta bene e nascerà tra poco, ma ci ha chiesto anche di continuare a fidarci di Lui nonostante un tumore che ho scoperto poche settimane fa e che cerca di metterci paura del futuro, ma noi continuiamo a credere che Dio farà anche questa volta cose grandi.

Chiara Corbella Petrillo, al Laboratorio della fede, Gennaio 2011






Chiara Corbella è una ragazza nata in cielo il 13 Giugno 2012.
Aveva 28 anni ed era sposata con Enrico Petrillo.
Una coppia normalissima della generazione Wojtyla, cresciuta in parrocchia e a pane e Gmg.

Dopo essersi conosciuti a Medugorje hanno fatto un cammino da fidanzati con l’aiuto di alcuni frati di Assisi, e si sono sposati nel settembre 2008.

Chiara è rimasta subito incinta di Maria. Ma purtroppo alla bimba, sin dalle prime ecografie, è stata diagnosticata un’anencefalia. Senza alcun tentennamento l’hanno accolta e accompagnata nella nascita terrena e, dopo circa 30 minuti, alla nascita in Cielo.

Ho assistito personalmente al funerale che è stata una delle esperienze più belle della mia vita. Una vittoria di Cristo sulla morte, ribadita da questa piccola bara bianca e da due genitori che hanno scritto e cantato, ringraziando e lodando il Signore per tutta la Messa. 

Qualche mese dopo, ecco un’altra gravidanza. Anche in questo caso l’ecografia non è andata bene. Il bimbo, questa volta era un maschietto, era senza gambe. Senza paura e con il sorriso sulle labbra hanno scelto di portare avanti la gravidanza. Ho parlato io stesso con Enrico che mi raccontava la sua gioia di avere un bimbo anche se privo delle gambe. Purtroppo, però, verso il settimo mese, l’ecografia ha evidenziato delle malformazioni viscerali con assenza degli arti inferiori e incompatibilità con la vita. 

Anche in questo caso i due giovani con il sorriso (io l’ho visto e seguito quel sorriso che nasce dalla fede) hanno voluto accompagnare il piccolo Davide fino al giorno della sua nascita in cielo avvenuta (anche in questo caso) poco dopo la nascita terrena.
C’ero anche al funerale di Davide. Anche lì tanta bellezza, tanta fede e una sorta di invidia per quella gioia portata nonostante la croce. Una gioia non finta e di circostanza, ma esempio per molte famiglie coetanee.



Finalmente una nuova gravidanza: Francesco… Tutti noi amici abbiamo gioito non poco per questa notizia e per la speranza di Chiara ed Enrico verso la vita. Molti avrebbero – comprensibilmente – desistito dal riprovarci. E mentre le ecografie confermavano la salute del bimbo, al quinto mese di nuovo la croce. A Chiara è stata diagnosticata una brutta lesione della lingua e, fatto un primo intervento, i medici le hanno detto che si trattava di un carcinoma. Nonostante questo, Chiara ed Enrico hanno voluto difendere questa vita. Non hanno avuto dubbi e hanno deciso di portare avanti la gravidanza mettendo a rischio la vita della mamma. Chiara, infatti, solo dopo il parto si è potuta sottoporre ad un intervento più radicale e ai successivi cicli di chemio e radioterapia. Il sottoscritto e molte altre famiglie, sono testimoni oculari di tutte queste prove portate avanti con il sorriso e con un sereno e incomprensibile affidamento alla Provvidenza.

Ho parlato più e più volte con Chiara ed Enrico di come in tutte queste prove mai si son lasciati sconvolgere, ma solo hanno accettato la volontà di Colui che non fa nulla per caso. E di come, sempre, hanno ripetuto la loro preghiera quotidiana di consacrazione a Maria terminante con Totus Tuus… Potrei raccontare molte altre cose… i mesi difficili di chemio e radioterapia, il rosario familiare del giovedì sera messo in piedi da varie famiglie a loro vicine, la consacrazione del loro figlio a Maria nella Porziuncola… Ora Chiara è nata in cielo. E in molti siamo testimoni di questa vita Santa.

Gianluigi De Palo, 13 Giugno 2012

dal blog http://www.chiaracorbellapetrillo.it/






giovedì 19 marzo 2015

La storia di Giacomo Celentano


"Dal buio si può uscire cercando Gesù"

giacomo.celentano


Giacomo, è il figlio del grande Adriano Celentano. Ha alle spalle una bella carriera artistica, iniziata nel 1989 come cantautore di musica cristiana. La sua prima pubblicazione avvenne con l’album “Dentro il bosco”. Nel 1996, nasce in Giacomo il desiderio di scrivere brani musicali d’ispirazione cristiana e, grazie a Radio Maria, entra in contatto con Roberto Bignoli e Mario Ferraro. Successivamente ha scritto alcuni brani tra cui: “L’Eterno Messaggio” e “Il Cantico di Zaccaria”.

Le prime sofferenze iniziano a farsi sentire durante un concerto in cui cantavi. Ci puoi raccontare?

Dobbiamo fare un passo indietro. Nel 1989 avevo realizzato il mio primo album “Dentro il bosco”, con la casa editrice di Caterina Caselli, e avevo davanti a me un futuro promettente come cantautore. Apparentemente non avevo nessun sintomo di malessere, di depressione e di stanchezza. Però nel 1990, una notte di settembre, di colpo si dimezzò la mia capacità toracica, per cui cominciai a respirare malissimo. Passai la notte in bianco, senza riuscire a dormire. La mattina seguente, nel raccontare cosa mi era successo a mia nonna (in quel periodo vivevo con lei), c’impiegai un quarto d’ora.

Non avevo respiro neanche per parlare. Da ragazzo sportivo, pieno di vita, pieno d’interessi, nel giro di pochi giorni diventai un vegetale che non usciva di casa, non frequentava più gli amici e né lavorava più. Stavo davanti la televisione, tutto il giorno, e non parlavo, per cui ci fu questo repentino cambiamento, che preoccupò la mia famiglia d’origine.

I miei genitori mi portarono a fare delle visite mediche centrate sul caso. La cosa strana era che io fisicamente ero sano, ma avevo un sintomo forte d’insufficienza respiratoria. La prima conseguenza di questa malattia fu che non potei più cantare. Ci fu anche un’altra conseguenza, a causa della malattia non frequentavo più gli amici e nessuno riusciva a capirmi (neanche io riuscivo a farlo). Pian piano, nel giro di qualche mese, mi ritrovai solo con la mia malattia. Mi ritrovai in un momento di disperazione.

Come hai affrontato tutto questo?

Quando ho toccato il fondo, rimanendo da solo con la mia malattia, mi trovavo in un periodo in cui dal punto di vista spirituale, avevo abbandonato il mio cammino di fede, i sacramenti, la vita di fede, in una sola parola avevo abbandonato Dio. In questa situazione spirituale, di abbandono del Signore da parte mia, mi ammalai.

Quando restai completamente solo, con la mia malattia, cominciarono a fiorire nel mio intimo delle domande molto profonde. Mi chiedevo cosa il Signore volesse da me, quale sarebbe stato il mio progetto di vita, insomma mi chiedevo se il Signore voleva che io cantassi o che diventassi frate o che mi sposassi, ecc.. Cominciai il mio cammino vocazionale con Padre Emilio, un frate che a quel tempo stava a Milano e adesso è a Brescia. Cercavo di capire, con il suo aiuto, quale fosse il progetto di Dio sulla mia vita.

Cercavo di spronare Padre Emilio per farmi entrare in convento, ma lui mi diceva di stare calmo, perché prima bisognava fare una serie di verifiche, non era detto che avevo la vocazione. Ci vuole un buon discernimento ma soprattutto cercava di farmi capire che la vocazione non deve essere una fuga dal mondo, ma deve essere una rinuncia al mondo per amore di Dio.

Mi ricordo che lui mi faceva spesso questa domanda: “Giacomo se tu potessi cantare, vorresti lo stesso entrare in convento?”. Questa domanda mi metteva in crisi, rispondevo a Padre Emilio che se io potessi cantare, forse non cercherei di entrare in convento. Infatti, lui aveva la conferma che la mia non era una vocazione per la vita consacrata, ma io ero chiamato dal Signore tramite la sofferenza. Questo l’ho capito grazie a Padre Emilio e ad un mio discernimento personale.

Io sono convinto che il Signore, nel momento in cui l’avevo abbandonato, ha permesso questa mia sofferenza affinchè io mi riavvicinassi a Lui. Questo è avvenuto perché nella mia sofferenza, cominciai pian piano ad andare alla messa domenicale, a ricevere i sacramenti. Mi riavvicinai al Signore e cominciai a frequentare dei sacerdoti e a leggere libri spirituali.

Ci fu una risposta da parte mia, la stessa risposta che il Signore si aspettava, cioè che io ritornassi fra le Sue braccia. Il rapporto con Gesù è personale. Ognuno di noi ha la sua vocazione e il suo compito sulla terra, che Dio gli dà. Nel mio caso, Gesù mi ha chiamato tramite la sofferenza.

Ad esempio mio papà, a differenza mia, a volte ci racconta che lui ha scoperto Gesù nel pieno della sua gioia. Mio papà aveva tutto: il successo, una bella famiglia, era felice. Lui voleva ringraziare qualcuno, ed ha iniziato a cercare Gesù.

Tu hai scritto la tua storia, in un libro dal titolo “La luce oltre il buio”. Perché hai deciso di scriverla e di condividerla?

Intanto questo libro, l’ho scritto insieme ad un coautore. Quindi è stato scritto a 4 mani, è stato un lavoro di equipe. La mia casa editrice, la Piemme, l’ha rivisto e revisionato, ed è uscito fuori un lavoro gradevole.

La mia unica motivazione di averlo scritto, è che volevo mettere a disposizione la mia storia, per far capire a tutti quelli che sono nel buio, (il mio buio era l’ansia, la depressione e gli attacchi di panico) che dal buio si può uscire cercando Gesù. Lui è il vero medico del corpo e dell’anima. Prima bisogna cercare Gesù (questo è il primo passo) e poi rivolgersi ai medici, che sono strumenti del Signore.




Adriano Celentano, in un famoso Sanremo di qualche anno fa, si trovò ad essere criticato per aver fatto cadere l’attenzione, con un richiamo, sulla vita eterna. Ti capita di pensare al giudizio eterno, al Paradiso, all’inferno e al Purgatorio?

Io ci penso molto spesso, se non addirittura tutti i giorni. Io non mi sento un convertito, mi sento un anima in cammino. Sto facendo un cammino di conversione che è diviso in 3 tappe: la prima tappa è quella in cui l’anima scopre Dio, la seconda tappa è la più lunga, può durare anche anni, ed è quando l’anima si purifica dai suoi difetti, dai suoi vizi e peccati, infine c’è la terza tappa che avviene quando l’anima sposa, vive l’unione con il suo Sposo cioè con Cristo.

Io mi sento nella seconda tappa, nel momento della purificazione. E’ una tappa molto lunga, bisogna avere molta pazienza con se stessi, perché il Signore permette delle cadute per far sì che noi diventiamo umili. Bisogna perseverare, perché quando poi il Signore riterrà opportuno, finalmente comincerà a concedere delle vittorie a quest’anima che si purifica.

Giacomo, sei sposato con Katia e avete un bellissimo bambino di 8 anni, Samuele. Da fidanzati, avete praticato 5 anni di castità. Oggi la castità, sembra essere persa o dimenticata. Viviamo in una società in cui tutto sembra essere concesso…

Da fidanzati, io e Katia abbiamo fatto la scelta della castità. Non ce ne siamo mai pentiti, anche se personalmente, una volta sono caduto, perché siamo uomini fragili, ma al Signore importa che ci sia l’impegno. Però prima di sposarci, io e Katia non abbiamo mai fatto l’amore insieme e questo passo è molto bello, perché la sessualità vissuta all’interno del matrimonio è un qualcosa che edifica il matrimonio stesso e gli sposi, unendoli.

Tutto questo si può sperimentare solo se prima si è vissuta la castità prematrimoniale, perché è bello sposarsi e donarsi completamente e interamente all’altro, e poi perché la castità oggi è un valore da riscoprire. Gesù diceva: “Ciò che io dico alle vostre orecchie sussurrandovelo, voi gridatelo sui tetti”. Gesù voleva farci capire che non c’è niente che non debba essere manifestato. Penso che dobbiamo riscoprire il Vangelo e capire che Gesù è il Salvatore dell’uomo, anche oggi nel terzo millennio.

Che cos’è per te Medjugorje?

Io sono stato a Medjugorje nel 2010 con un gruppo di amici. Ho vissuto un momento molto toccante, quando di sera siamo saliti sul monte dell’apparizione, m’inginocchiai davanti la statua della Madonna bianca, e cominciai a pregare fervorosamente.

Poi arrivarono altri pellegrini, ci prendemmo tutti per mano e cominciammo a pregare tutti insieme. E’ stato veramente un bel momento. Io sono stato anche a Lourdes. La differenza che c’è tra questi due luoghi santi è che a Lourdes si va per chiedere una guarigione, a Medjugorje si va per pregare. A Medjugorje si scopre Maria come Mamma, e sempre lì, la Regina della Pace è essenzialmente maestra di preghiera.

Questo lo si vede anche dai suoi messaggi. Spero di tornarci con la mia famiglia, con Katia e Samuele. Una cosa che mi ricordo è che, quando tornai da Medjugorje, mi sentivo molto carico spiritualmente, per diversi giorni.

Pregando, passano anche le paure del futuro. L’importante è vivere bene l’oggi. Vivere da cristiano, da Santo, perché Dio ci chiama tutti alla santità, anche se non è facile, però dobbiamo tendere alla santità.


Intervista di Rita Sberna (da www.papaboys.org)

martedì 17 marzo 2015

Storia di Silvia Buso


Caro lettore,

visto che papa Francesco ha risposto pienamente
alla richiesta, al grido d'aiuto dei poveri che mi aveva spinto
a chiamare "La voce di Lazzaro" questo blog,
ho deciso di dedicarmi a postare testimonianze e storie di vita
che siano come raggi di luce per chi le incontra.
A gloria di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
Nel grembo di Maria.



Silvia è tornata a camminare a Medjugorje


Silvia-Buso


Una storia che tocca i cuori. Silvia è stata miracolata a Medjugorje durante un pellegrinaggio, la sua guarigione è stata istantanea, definitiva e duratura. Adesso sta bene ed è tornata ad una vita normale. Ci sono almeno altri 500 casi di guarigioni inspiegabili avvenute a Medjugorje. La sua storia è per certi versi paragonabile ad un noto episodio del vangelo di Marco (Mc 2,1-12)

Gesù entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati. Alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua”. Quello si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”.

Anche Silvia, saputo che il veggente Ivan avrebbe avuto una apparizione straordinaria alle 22,00 sulla collina delle apparizioni (Podbrdo), in cuor suo ha pensato che non era possibile che lei ci andasse, ma il padre con altri uomini del gruppo si sono offerti di portarla in braccio è così hanno fatto. La loro fede insieme a quella di Silvia è stata premiata, cosa è avvenuto lo possiamo ascoltare in questo toccante video testimonianza.





da http://www.lalucedimaria.it/

domenica 15 marzo 2015

La storia di Hea Woo


È un miracolo vivente Hea Woo, nordcoreana, 
sopravvissuta al gulag e fuggita in Corea del Sud

«Dio mi ha salvato nei lager della Corea del Nord»



«Mi chiamo Hea Woo e sono nata in Corea del Nord… Mia madre è sempre stata una credente nascosta e per gran parte della mia vita io non lo capii… Sono stata rinchiusa per alcuni anni in un campo di lavoro forzato. Non esistono parole per spiegare ciò che ho vissuto là dentro. Ogni giorno era una tortura. Fu come vivere le piaghe d'Egitto tutte insieme»


I miracoli esistono. È un miracolo vivente Hea Woo, nordcoreana, sopravvissuta al gulag e fuggita in Corea del Sud. Un miracolo di sopravvivenza, ma anche di fede, maturata e conservata nelle catacombe del regime totalitario più repressivo del mondo. «Una volta vidi una croce appesa al collo di mia madre – dice della sua infanzia – mi proibiva di parlarne con chiunque. Mormorava sempre qualcosa mentre preparava la colazione. Solo quando divenni cristiana, circa 20 anni fa, realizzai che stava pregando. Mia madre era anche solita dire strane cose, sia a me che ad altre donne. Diceva che il Paradiso vegliava su di noi. Mia madre era una cristiana sotterranea e non lo seppi mai. Ma sono convinta che abbia pregato per me, per tutta la sua vita».




Hea Woo scoprì il cristianesimo attraverso il martirio di suo marito, un ex comunista che a sua volta venne convertito da un gruppo di cristiani sotterranei in Cina, mentre cercava di fuggire dalla Corea del Nord. Arrestato dalla polizia cinese e riconsegnato ai suoi aguzzini, morì in carcere sotto tortura. In una delle ultime visite che poterono fargli i suoi figli, riuscì a scrivere sulle loro mani “Credete in Gesù”. «Ero scioccata al sapere che fosse diventato un cristiano – ricorda Hea Woo – ma istintivamente ho realizzato che lui avesse trovato la verità, mentre io vivevo ancora nella menzogna. Dopo sei mesi di carcere mio marito morì. Più tardi incontrai i suoi compagni di cella, che mi dissero quanto era stato buono con loro. Io iniziai a vendere tutto quel che avevo, volevo andare in Cina e trovare là una chiesa. Avevo bisogno di conoscere la verità. Trovai alcuni cristiani coreani che mi insegnarono il Vangelo. Grazie alle preghiere di mio marito e di mia madre, io abbracciai la fede».

Esattamente come per i primi cristiani, anche la conversione di Hea Woo passa per una fase di tribolazione e martirio, che la portò più volte sul punto di morire. Lei attribuisce la sua sopravvivenza a un miracolo. O meglio: a una serie di miracoli, avvenuti grazie alla sua fede incrollabile. Fallita la sua fuga in Cina, venne arrestata e torturata «Mi hanno colpita a calci e bastonate. Ero talmente prostrata che iniziai a dubitare di Dio. Ma ricordai quel che Gesù passò durante la Passione e la croce e le mie torture apparvero nulla in confronto». In carcere si ammalò e non riuscì più a mangiare. Perse sangue, l’uso delle gambe, quasi completamente l’udito e la vista. Il medico del carcere le disse che aveva solo tre giorni da vivere. Visto che non ci sentiva bene, una guardia glielo urlò nell’orecchio. Quando, al processo, la condannarono a tre anni di lavori forzati, i giudici ridevano: nel loro sadico umorismo erano divertiti dal fatto che avesse solo pochi giorni di vita e dunque non avrebbe scontato tutta la sua pena. Eppure Hea guarì, anche senza medicine, grazie alla compassione di alcune guardie e dei compagni di prigionia. E grazie anche alla sua fede incrollabile.

Come “premio” per la sua resistenza e miracolosa guarigione, venne realmente mandata ai lavori forzati in un gulag. “Non provate a fuggire, verrete uccisi!” era la scritta sul portone del campo. Quanto di più vicino si possa leggere al “Lasciate ogni speranza oh voi che entrate” nell’Inferno di Dante. Il gulag, in effetti, ci viene descritto da Hea Woo come un vero inferno in terra. La sopravvissuta non ci racconta tutti gli orrori che ha vissuto. Solo qualche frammento di quella realtà: prigionieri costretti a spaccar le ossa e bruciare i corpi dei loro compagni defunti; un prigioniero fuggiasco, catturato, ferito, esposto alla vista degli altri fino alla sua morte per fame; lotte per accaparrarsi insetti e rospi da mangiare, per riuscire a sopravvivere alle 12 ore di lavoro quasi senza cibo; internati destinati a svuotare le latrine che regolarmente morivano dopo pochi mesi per infezioni e malattie. Il tutto accompagnato da crudeli sessioni di autocritica, denunce reciproche e lezioni di indottrinamento marxista, per uccidere la mente e lo spirito, oltre al corpo. «Ogni giorno era una tortura – dice Hea Woo – Spesso ricordavo. Tutti i giorni gli internati morivano e venivano cremati e le guardie spargevano le ceneri sui campi e sulla strada. Ogni giorno dovevamo marciare sulle loro ceneri, ogni giorno pensavo al momento in cui qualcun altro avrebbe calpestato le mie».


Hea non solo sopravvisse, ma riuscì anche a compiere la sua opera di evangelizzazione, convertendo altri prigionieri. «Io volevo solo vivere. Come poteva Dio chiedermi di parlare di Gesù ad altri internati? Sarei stata uccisa, se mi avessero scoperto. Ma Dio insistette. Mi mostrò quali prigionieri avrei dovuto avvicinare. Mi dava un’intuizione: “Quella persona, parlane con lui”». Ne convertì diversi, “facilmente”, come tiene a precisare: «Non solo ascoltavano quel che dicevo, ma vedevano anche lo Spirito che lavorava in me. Talvolta davo ad altri un po’ della mia piccola razione di riso. Quando le persone si ammalavano, andavo da loro e li aiutavo, lavando i loro panni». Si formò una piccola comunità cristiana segreta. Si riunivano in segreto per celebrare la messa, a volte nelle camerate dei dormitori, più spesso nelle latrine: erano talmente fetide che le guardie avevano orrore a entrarvi.

Dopo anni di inferno, Hea tornò “libera” a casa sua. Ma sentiva di non poter più restare in Corea del Nord. Non avrebbe mai accettato di farsi “rieducare”, né di inchinarsi alla statua del “padre della patria” Kim Il Sung, unica divinità consentita nel regime ateo nordcoreano. La sua fuga in Cina e di lì in Corea del Sud ha, anch’essa, del miracoloso. Perché è sempre una missione quasi del tutto impossibile uscire dai confini fortificati del “regno eremita”. Ma ora è libera, a parlare della sua esperienza e testimoniare la sua fede, perché si preghi per quei milioni di uomini e donne ancora rinchiusi in quell’inferno della Corea del Nord.

di Stefano Magni

da La nuova Bussola Quotidiana

La storia di Dawn Eden



IL VIAGGIO DELL'EBREA DAWN EDEN, 
DALLA VITA SEX & ROCK AL CATTOLICESIMO
«LA CASTITÀ È LA VERA RIBELLIONE AL SISTEMA, 
SIAMO NOI LA NUOVA CONTROCULTURA»


Il viaggio dell'ebrea Dawn Eden, dalla vita sex & rock al cattolicesimo. «La castità è la vera ribellione al sistema, siamo noi la nuova controcultura»
Dawn Eden nei suoi anni newyorkesi insieme a Brian Wilson, fondatore dei Beach Boys


Nel Tannhäuser, l'opera di Wagner, un trovatore medievale fa ritorno al suo villaggio in cerca di guarigione e salvezza dopo aver speso anni come volontario schiavo di Venere. Ma quando i suoi vicini di un tempo apprendono dove è stato, gli dicono che ha perso ogni speranza. Una volta che un uomo ha gustato i piaceri di Venere non riuscirà più a togliersi la dea dal sangue.

Oggi siamo attorniati da moderni Tannhäuser: uomini e donne dipendenti dalla pornografia, single in cerca di amore attraverso il sesso, sposi che desiderano il piacere escludendo la procreazione. La fede cattolica insegna però che per loro c'è una via di perdono e di recupero dell'integrità, anche se troppo spesso li diamo per persi, parlando della castità come se fosse una virtù riservata solo ai vergini. In questo modo facciamo nostra la menzogna della cultura odierna secondo cui gli schiavi del piacere non riusciranno mai a trovare la libertà in Cristo. Che non può essere la loro via.

Il venerabile arcivescovo Fulton Sheen scriveva che esiste uno stato di sazietà disillusa che chiamava “grazia nera”, una specie di assuefazione che può aprire la strada alla “grazia bianca” della conversione. Molti di coloro che hanno creduto all’inganno della rivoluzione sessuale si trovano a fare i conti oggi con l'oscurità della grazia nera. E se la verità della castità viene loro presentata, possono fare esperienza di una trasformazione in Cristo. Lo so perché è quello che è successo a me.

Negli anni novanta, giovane ebrea e giornalista di musica rock a New York, ho speso i miei giorni intervistando band per la rivista Mojo e le mie notti frequentando locali notturni in tenute studiate apposta per offrire a chi mi guardava un brivido sulla pelle. Oggi sto portando a termine un dottorato in teologia e sono autrice del libro The Thrill of the Chaste: Finding Fulfilment While Keeping Your Clothes On (Il brivido della castità. Trovare appagamento tenendo i vestiti addosso). Guardo la mia vita ed è come se Marianne Faithfull si fosse trasformata in Mary Whitehouse (attivista inglese cristiana che si battè contro l’indecenza e l’immoralità nel costume, soprattutto nei media ndr).

Cosa è successo? La mia conversione è iniziata nel 1995 quando un musicista rock di Los Angeles che stavo intervistando al telefono mi disse che stava leggendo un romanzo, L’uomo che fu giovedì, di un autore che non avevo mai sentito, G.K. Chesterton. Ne comprai subito una copia pensando che mi avrebbe aiutato a conversare con l’artista in questione quando fosse passato da New York.

Una frase nel primo capitolo mi colpì: «La cosa più poetica al mondo è non stare male». Quello fu il momento della mia grazie nera. Quando lessi quelle parole ero infatti intrappolata in un circolo vizioso. Sola, perché non era amata, mi offrivo ad “amanti” che non mi amavano. Chesterton mi costrinse a riconoscere quello che cercavo di reprimere da troppo tempo: quanto profondamente desiderassi guarire, rimettere in ordine la mia vita, conoscere la poesia del non stare male.

Con il passare del tempo (e con il passare dei libri di Chesterton) ho iniziato a fare esperienza della grazia bianca della conversione. Ma, riluttante a pormi sotto l'autorità di una confessione particolare, ho provato a percorrere il cammino cristiano per conto mio. Ho presto scoperto che cambiare ciò in cui credevo non era abbastanza per cambiare anche le mie abitudini.

Era chiaro che tutti i piaceri che mi ero concessa non mi avevano portato più vicino all'amore che cercavo. Ed era altrettanto chiaro che l'unico modo in cui potevo ricevere un tale amore era quello di imparare a donarlo. Ma dove e come imparare?

Un amico cattolico che vide come stavo lottando mi diede un libro che riprendeva brani del Catechismo della Chiesa cattolica. Lì trovai la mia risposta: formare la virtù della castità mi avrebbe mostrato come amare gli altri nel modo in cui Dio ama me (Catechismo 2347: «La virtù della castità si dispiega nell'amicizia. Indica al discepolo come seguire ed imitare colui che ci ha scelti come suoi amici, si è totalmente donato a noi e ci ha reso partecipi della sua condizione divina»).


La castità non era un mettere alla porta l'amore umano, piuttosto un lasciare entrare l'amore divino. Significava lasciare che Dio riplasmasse i miei desideri per orientarli secondo la sua volontà, per la mia felicità.

Nella nuova edizione rivista di The thrill of the chaste, profondamente rivista rispetto all'edizione del 2006, che scrissi prima di diventare cattolica, mi focalizzo sul “sì” degli insegnamenti della Chiesa, perché non si possono capire i vari “no” se non si capisce prima l’onnicomprensivo “sì”. Per esempio, uno non può capire perché la Chiesa insegna il “no” alla contraccezione e al matrimonio tra persone dello stesso sesso se prima non capisce che l'amore coniugale è per definizione libero, totale, fedele e fecondo (vedi Humanae Vitae 9).

Oggi la castità non è certamente una cosa “in”. Ma in una società che ha cessato di essere cristiana, questo è anche ciò che la rende interessante. In Occidente il cristianesimo è stato per lungo tempo la cultura dominante, ora è tornato ad essere la controcultura.


Papa Francesco lo sa. Rivolgendosi ai giovani sul tema della Giornata Mondiale della Gioventù 2015, “Beati i puri di cuore”, li ha spronati a ribellarsi «contro la diffusa tendenza a banalizzare l’amore, soprattutto quando si cerca di ridurlo solamente all’aspetto sessuale», a ribellarsi «contro questa cultura del provvisorio, che, in fondo, crede che voi non siate in grado di assumervi responsabilità, crede che voi non siate capaci di amare veramente».


Nell'opera di Wagner Tannhäuser cerca di liberarsi dall'abbraccio di Venere perché sente, benché debolmente, che qualcosa di vitale manca anche nei più avvolgenti piaceri della dea. Francesco ci incoraggia ad avere fede nel fatto che anche i nostri Tannhäuser possono raggiungere il punto della grazia nera: la presa di coscienza traumatica che l’“amore” svincolato da tutto e che loro pensavano li potesse riempire, arricchire, è invece solamente un impoverimento di ciò che l'amore dovrebbe essere. Ma essi hanno bisogno del nostro aiuto. Possiamo iniziare a creare una controcultura casta smettendo di trattare i nostri “duri insegnamenti” come se fossero medicine amare solo accidentalmente collegate al godimento celeste, al banchetto del paradiso.


La castità non è una nota a piè di pagina della Buona Novella. È la Buona Notizia che mostra come le braccia di Venere non sono nulla paragonate al cuore di Gesù.

da Il Timone
(dal «Catholic Herald» in inglese)

venerdì 13 marzo 2015

La storia di O. J. Brigance


Eroe del Super Bowl, oggi malato di Sla:


«Da quando ho la Sla, ho fatto più bene 

di quanto non avessi fatto nei precedenti 37 anni»





«Il pensiero che una persona potrebbe avere un modo legale di togliersi la vita mi rattrista profondamente. È una tragedia». Non volava una mosca martedì nell’aula del Senato del Maryland, mentre Orenthial James Brigance con la sua voce metallica rendeva una testimonianza «in opposizione alla legge 676 sul suicidio assistito».


«EROE» DEL SUPER BOWL. O. J. Brigance non è una persona qualunque. Stella ed «eroe» degli Stallions e dei Baltimore Ravens, è uno dei sette giocatori nella storia del football americano ad aver vinto sia il campionato della lega canadese che il Super Bowl nel campionato nazionale. Ma è l’unico nella storia ad averlo fatto per la stessa città: Baltimore.


«LA NOTIZIA DEVASTANTE». Davanti ai senatori del Maryland, Brigance non parlava in qualità di stella del football ma di malato, inchiodato da otto anni a una sedia a rotelle. Nel 2007, infatti, durante una partita di racquetball, si è accorto che il suo braccio destro rispondeva in modo strano ai movimenti comandati. Dopo una serie di esami, «ho ricevuto una notizia devastante: avevo la Sla», una malattia neurodegenerativa che in pochi mesi può portare alla paralisi totale dei muscoli volontari e di conseguenza alla morte.


«SULLA MIA PELLE». «Mi sento in dovere di dare la mia testimonianza su questo tema, perché otto anni fa ho ricevuto una notizia devastante: avevo la Sla», ha esordito Brigance in Senato. «Ho vissuto sulla mia pelle il dibattito che stiamo facendo questo pomeriggio, mi sono domandato se questa vita fosse degna di essere vissuta. Io sono stato un atleta professionista e per me perdere progressivamente l’abilità di correre, camminare e infine parlare» è stato molto difficile. Brigance, infatti, è in grado di comunicare solo grazie a un sintetizzatore vocale.


«NON HO CREATO LA MIA VITA». «Dopo un lungo percorso io e mia moglie abbiamo preso una decisione, che è stata ovviamente molto difficile», ha proseguito. «Io non ho creato la mia vita e non ho il diritto di togliermela. E poiché ho deciso di vivere al meglio delle mie possibilità, si è verificato un effetto di bene a cascata nel mondo». Quello a cui si riferisce è l’operato della sua associazione, la Squadra di Brigance, fondata «nel 2008 insieme a mia moglie per incoraggiare ed aiutare i malati di Sla».


«HO FATTO PIÙ BENE ORA». Negli anni, «abbiamo sostenuto tante famiglie nel momento del bisogno, anche finanziario, e con l’aiuto della tecnologia io sono riuscito a scrivere un libro due anni fa. Non vi dico quante persone si sono sentite incoraggiate nella loro lotta, perché io ho deciso di affrontare la mia battaglia contro la Sla. In questi otto anni, da quando mi è stata diagnosticata la malattia, io ho fatto più bene per questa società di quanto non avessi fatto nei precedenti 37».


CONTRIBUTO DI UN MALATO. In base ai criteri della legge, invece di fondare quest’opera, Brigance avrebbe potuto togliersi la vita con il suicidio assistito. Consapevole di questo, la stella del football americano ha concluso: «Non so quanto tempo mi rimanga ancora da vivere, ma il pensiero che una persona potrebbe avere un modo legale di suicidarsi nel momento della disperazione – privando la famiglia, gli amici e la società della sua presenza e del suo contributo – mi rattrista profondamente. È una tragedia. Ecco perché chiedo ad ognuno di voi di opporsi a questa legge. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo della vita ci viene dato da Dio e ha un valore. Il suicidio assistito svaluta le vite e il possibile futuro contributo che gli abitanti del Maryland possono offrire. Grazie per avermi dato l’opportunità di parlare».


@LeoneGrotti


da www.tempi.it

La storia di Federico De Rosa



Ventunenne, autistico, 
racconta la sua “prigione interiore”

Perché “Dio si fa trovare piano piano



“Mi chiamo Federico, sono nato nel 1993 e mentre scrivo queste righe ho da poco compiuto vent’anni”. Federico soffre di autismo e non riesce a parlare. All'età di un anno i genitori Paola e Oreste notano che quel loro bellissimo figlio, vivace, e dai biondissimi capelli ricci comincia a trapassarli con lo sguardo, a rifiutare qualsiasi contatto e a non voltarsi quando veniva chiamato. A tre anni la diagnosi: si tratta di “autismo”. Seguono poi anni e anni di terapie, con lui aggrappato all'amore saldo dei genitori e dei fratelli Arianna e Leonardo.


L'inserimento a scuola è però un toccasana per lui e a 8 anni comincia a muovere i primi passi nel tentativo di comunicare attraverso il computer. Davanti a una tastiera la sua sindrome sembra, infatti, arretrare. Si apre uno spiraglio nella sua “prigione”. Scrive con il solo indice della mano destra. Inizia a dare forma a parole, frasi, e poi a pensieri e sentimenti conditi da una forte carica di ironia. Scopre l’amicizia, l’amore, la fede. Nasce così la sua autobiografia dal titolo “Quello che non ho mai detto” (Edizioni San Paolo) ricca di osservazioni profonde, rare e preziose sulla sua sindrome.

LA GIOIA A LUNGO DESIDERATA
“Oggi condivido con voi una grande gioia – annota Federico –. Dopo vent'anni di silenzio, una vita senza poter parlare, dodici anni di fatica per imparare a scrivere, è arrivato nelle librerie il mio libro, quello in cui racconto la mia storia, in cui spiego il mio autismo, in cui ho potuto finalmente dire come io vedo il mondo e ciò in cui credo. Dopo una vita passata in silenzio, comunicare è finalmente conseguire una gioia a lungo desiderata”.

CREDO IN DIO
Molto dense sono le righe in cui mette a nudo la sua fede. Dell'Eucaristia, ad esempio, scrive: “Io quando ricevo la comunione sento di entrare in rapporto con Dio e trovo la pace nel cuore”. Sulla Passione di Cristo: “Gesù raggiunge ogni persona che soffre. E' lì vicino ama e soffre con noi. Ci è venuto a mancare nel nostro dolore”. E ancora: “Dio si fa trovare piano piano, da chi lo cerca sinceramente”. La scelta, invece, di aprirsi alla vita d'amore di Dio “è come udire una musica e partecipare alla danza”. E poi c'è la riflessione su credenti e no: “Credo che la fede e l’ateismo siano due misteri complementari della vita umana. Ma credenti o atei, siamo tutti in cammino lungo il sentiero della vita. Il fatto che ciascuno abbia il proprio personale e unico percorso da fare non impone che non ci si possa sentire compagni di viaggio, anche tra atei e credenti, nella solidarietà ma anche nel pieno rispetto delle convinzioni degli altri”.

NO A INUTILI PIETISMI E AI RUMORI
Federico descrive ciò che prova un ragazzo nelle sue condizioni, così che possiamo comprenderlo meglio e cambiare il nostro approccio: “Se pensate che noi autistici siamo degli handicappati, lasciateci stare, per favore”. Se questo è la vostra idea non perdete tempo, sembra insomma dire. “Non stressate troppo le mie fini capacità percettive, quindi odio gli ambienti rumorosi, con molte luci e molta gente che parla. Per una passeggiata preferisco le atmosfere ovattate di un bosco che il caos di un centro commerciale. Datemi un inpunt alla volta. Posso capirvi ma comunicate piano e con frasi semplici. Spiegatemi pacatamente dove andiamo, a fare cosa e come. Per voi sarà ovvio ma per me no”.

STATE IN SILENZIO
Gli bastano poche rapide frasi per disarmare il lettore: “Penso che il mondo abbia un drammatico bisogno di silenzio, sia individuale sia relazionale, per imparare a sentire le cose con il cuore. Invece cerca di esorcizzare questo bisogno facendo ancora più rumore. Io non so parlare, ma voi siete capaci di coltivare le relazioni anche stando in silenzio?”. Ci sono poi cose che noi “neurotipici” non sappiamo fare, ma Federico sì: “Anch'io, per esempio, so fare delle cose per voi difficili, come parlare e ascoltare allo stesso tempo o ascoltare e comprendere due persone che parlano contemporaneamente di cose diverse. In sintesi, la mia mente lavora in un modo diverso da quella degli altri e ciò mi mette in difficoltà”.


PROGETTI PER IL FUTURO
Oggi Federico studia percussioni, ha tanti amici, aiuta persone con autismo in famiglia ed accarezza molti progetti per il futuro: “Ora la mia vita ha trovato il suo corso – scrive – grazie agli operatori che mi hanno insegnato il metodo, ai miei genitori che con entusiasmo si sono lanciati in questa avventura io oggi sono felice della mia vita e il merito, in gran parte, è loro”. Il suo pensiero però corre anche agli altri: “Quanti autistici mentalmente perduti avrebbero potuto essere altri Federico se diagnosticati presto, ben supportati nell'età dello sviluppo e molto amati?”. Ma uno è il suo desiderio più forte: “Andrò in giro per il mondo a vedere donne incinte per capire se i loro bimbi sapranno parlare e curare l'autismo. Io giocherò con i loro bimbi per aiutarli a crescere a imparare a parlare. Quando un bambino avrà bisogno di me, io sarò lì ad aiutarlo”.

IO SOGNO SPESSO E TANTO”
Ancora oggi Federico non dice nulla, anche se a volte gli sfugge una parola o borbotta tra sé, ma lettera dopo lettera riesce a dipingere il suo mondo interiore con impressionante profondità e lucidità. Continua a vivere a Roma. E sogna, “spesso e tanto”: “Un sogno ricorrente è una giornata di sole in cui i miei sentimenti e i miei pensieri si sciolgono in una sorgente di parole per tutti i miei amici. Che bello dev’essere poter parlare!”.

da www.aleteia.org

lunedì 9 marzo 2015

Storia di una conversione dall'ISIS?


Creduto morto, rivive e si converte un membro ISIS.


Una storia incredibile che testimonia l’incredibile resurrezione 
e conversione alla Fede Cattolica di un ex tagliagole islamico dell’Isis! 

Dopo che l'uomo si è risvegliato, ha riferito a Padre Hermann Groschlin, un sacerdote cattolico, delle visioni che aveva avuto mentre era nell'aldilà, un evento che ha profondamente cambiato il vecchio jihadista di 32 anni e alla fine lo ha portato alla sua conversione al cristianesimo alcuni giorni più tardi.

Aleppo, Siria. - L’Aleppo Herald del 3 marzo ha riportato: “Un jihadista ISIS recentemente si è convertito al cristianesimo dopo essere stato considerato morto e lasciato vicino al confine orientale della Siria dove è stato in seguito salvato da missionari cristiani della regione".
L’uomo, che è miracolosamente sopravvissuto a ferite multiple di pistola sparate dopo uno scontro tra ISIS e le forze dell’esercito siriano, è stato salvato dai membri del Santo domenicano Presbiterio Cattolico di Ayyash dopo che il conflitto era scoppiato. I membri dell’organizzazione cristiana avevano voluto dare all’uomo una degna sepoltura cristiana e lo avevano portato ad oltre 26 chilometri di distanza. L’uomo è miracolosamente tornato in vita dopo che era stato creduto morto per le ferite.
Dopo che l’uomo si è risvegliato, ha riferito a Padre Hermann Groschlin, un sacerdote cattolico, delle visioni che aveva avuto mentre era nell’aldilà, un evento che ha profondamente cambiato il jihadista di 32 anni e alla fine lo ha portato alla sua conversione al cristianesimo alcuni giorni più tardi.
“Mi avevano sempre insegnato che morire come un martire avrebbe fatto aprire le porte del Jannah, o Porta del Cielo”, cosi diceva al sacerdote cristiano. Tuttavia, appena aveva cominciato a salire verso la luce dei cieli, entità diaboliche, o demoni erano apparsi e lo avevano portato nel fuoco dell’Inferno. Aveva dovuto rivivere tutto il dolore che aveva inflitto agli altri e ogni morte che aveva causato durante la sua vita. Ha anche dovuto rivivere le decapitazioni delle sue vittime attraverso i loro occhi, “immagini che lo perseguiteranno per il resto della sua vita”.
“Poi Dio ha parlato a lui e gli ha detto che aveva fallito miseramente come anima umana, che gli sarebbe stata vietata la Porta del Cielo, se sceglieva di morire, ma che, se avesse scelto di vivere di nuovo, avrebbe avere un’altra chance di pentirsi dei suoi peccati e camminare lungo il sentiero di Dio ancora una volta”.
Il giovane afferma di essere stato riportato in vita e poi di essersi convertito al cristianesimo alcuni giorni dopo, credendo che era stato ingannato per tutta la sua vita religiosa sotto il culto di Allah.
Il giovane, le cui ferite sono sorprendentemente guarite in un tempo molto breve, ha scelto di vivere tra i membri del presbiterio cattolico che lo ha salvato dal deserto e adesso spera che la sua storia aiuterà altri combattenti ISIS a cambiare vita e convertirsi a quella del solo vero Dio, così il sacerdote ha detto ai giornalisti locali.
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