san Paolo

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D’improvviso lo avvolse una luce dal cielo (At 9,3)

venerdì 2 ottobre 2015

La storia di Mark Wahlberg

Dal carcere a Hollywood, passando per la Chiesa

Mark Wahlberg - it

Molta gente ha una crisi, va in carcere e trova Dio, e quando non ne ha più bisogno si dimentica di Lui. Io passo invece gran parte della mia giornata rendendo grazie a Dio per tutte le benedizioni che mi ha concesso”.


Mark nasce il 5 giugno 1971 nel quartiere Dorchester di Boston, ultimo di nove figli, da un tassista di origini svedesi e franco-canadesi reduce della guerra di Corea, e da un'infermiera di origini irlandesi ed inglesi; i suoi genitori hanno poi divorziato quando aveva 11 anni.

Wahlberg vive un'infanzia difficile e la sua adolescenza sarà caratterizzata da piccoli crimini e uso di droghe. A quattordici anni mette in piedi una banda e a sedici spacca la testa al vietnamita Thanh Lam, forse a scopo di furto e, sempre nello stesso giorno e con lo stesso bastone, cava un occhio a Hoa Trinh. Erano solo «Vietnam fucking shit» per il giovane razzista cocainomane. Seguirono venticinque arresti della Boston Police e una condanna a dieci anni per tentato omicidio, ridotti a due, quindi a quarantacinque giorni da scontare nel correzionale della Deer Island House.

"Ho commesso un sacco di errori perché avevo un sacco di tempo libero - dichiara oggi Mark - I miei genitori lavoravano molte ore al giorno per darci da mangiare, e io potevo stare pochissimo tempo con loro. Per questo, ora, prima di accettare un ruolo, mi assicuro che mi resti del tempo per stare con i miei figli e potermi impegnare in ogni aspetto della loro vita. Mia moglie ed io cerchiamo di insegnare loro i valori principali, e la fede è il più importante".

Il ragazzo si era meritato una reputazione di testa calda e irrecuperabile, invischiato in storie di gang di quelle dalle quali è difficile uscire. Ma ci è riuscito grazie al rapporto con il suo parroco, attraverso cui ha recuperato la fede e si è ricostruito una vita.
Uscito di prigione cerca di rifarsi una vita e chiede aiuto al fratello Donnie, nel frattempo diventato membro dei New Kids on the Block. Ottiene così un contratto discografico e assieme ad un deejay fonda i Marky Mark & the Funky Bunch che esordiscono nel 1991 con il brano Good Vibrations. Dopo qualche hit viene notato da Calvin Klein, che lo vuole per la sua nuova campagna pubblicitaria di intimo al fianco di Kate Moss e gli scatti di Herb Ritts fanno il giro del mondo, facendolo diventare un sex symbol. 

Ma quando viene fuori il suo passato di teppista e viene accusato di essere razzista e omofobo, il mondo della musica gli volge le spalle, per cui decide di dedicarsi alla recitazione. Dopo particine in tivù e film mediocri, la grande occasione arriva con David O. Russell, che nel 1999 lo vuole accanto a George Clooney nel film Three Kings, ambientato dopo la fine della Guerra del Golfo. E dato che le amicizie contano, il bel George immette Mark nel giro giusto, caldeggiandolo per La tempesta perfetta (2000) di Wolfgang Petersen. Ma il miglior ruolo della carriera, dopo Boogie Nights, sarà ne Il pianeta delle scimmie (2001) di Tim Burton. I primi riconoscimenti ufficiali arrivano grazie a Martin Scorsese, nel cui spettacolare poliziesco The Departed (2006), l'attore trentacinquenne interpreta un sergente duro e antipatico, guadagnandosi una nomination ai Golden Globes, accanto a calibri come Di Caprio e Nicholson. Coi soldi, arriva anche il matrimonio con la modella Rhea Durham e quattro figli, cresciuti a pane e cattolicesimo, perché con il successo Mark non dimentica la fede che lo ha redento e sfoggia rosari grossi come catene da rapper:


"Tutto ciò che di positivo è avvenuto nella mia vita è stato dovuto alla mia fede. Molta gente ha una crisi, va in carcere e trova Dio, e quando non ne ha più bisogno si dimentica di Lui. Io passo invece gran parte della mia giornata rendendo grazie a Dio per tutte le benedizioni che mi ha concesso".

Per molti è all’apice della carriera, e ha rivelato che questo successo “va di pari passo con il mio nuovo incontro con Dio attraverso l’Eucaristia”. Wahlberg sostiene che per propria determinazione assiste alla Messa domenicale:“Se è necessario interrompo le riprese, ma vado sempre a Messa. È molto più importante del lavoro”.

Per l’attore, la fede è “consolazione, senso, tutto”, e per questo riconosce di essersi pentito di aver ferito molte persone nella sua vita, “alle quali ho chiesto spesso di perdonarmi”. Dichiara anche di voler aiutare i giovani “perché non percorrano la strada che ho percorso io durante la mia giovinezza” attraverso la sua fondazione, The Mark Wahlberg Youth Foundation.

venerdì 28 agosto 2015

La storia di Gregoire Ahongbonon


Gregoire, l’ex gommista africano
che libera i malati di mente dalle catene

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Non è una storia comune. È la storia di un gommista che un giorno si mette a curare i pazzi, nella foresta africana. Che li va a cercare e liberare dai tronchi d’albero cui sono incatenati, nei loro villaggi, perché nel cuore dell’Africa i pazzi sono ancora creature possedute dagli spiriti maligni.
Au bois, si dice in Costa d’Avorio: avvinti ai ceppi vengono tenuti i folli, per mesi ed anni. Perché non scappino. Qualcosa da mangiare e da bere, il minimo. Fino a che non muoiano. Quelli ogni tanto urlano grida senza senso, oppure tacciono, arresi e inebetiti. Non hanno che da aspettare la fine. Così è, nella tradizione locale, da sempre. 

L’ex gommista si chiama Gregoire Ahongbonon, nato in Benin nel 1953, terza elementare, sposato, sei figli. Un nero piccolo di corporatura, simpatico, cocciutissimo, dicono, uno che si fa centinaia di chilometri per andare a liberare un altro povero cristo incatenato. Sono anni che s’è messo a fare la sua silenziosa rivoluzione. Amici, missionari, sacerdoti lo avvertono. Lui arriva, chiede il permesso alla famiglia, promette che può curare quel figlio, quel fratello. Gli si avvicina, nel silenzio attonito di tutto il villaggio. Gli parla – parla a ciò che resta di un uomo da anni legato come un cane.

Racconta Marco Bertoli, uno psichiatra italiano che ha seguito Gregoire nelle sue spedizioni: «È stata una scena straordinaria. Quel poveretto era lì, assente, che non aspettava niente se non di morire. Gregoire gli si è chinato accanto, lo ha chiamato per nome, gli ha detto “vieni, ti porto via”. Quello lo fissava, e non capiva. Allora Gregoire lo ha liberato dalle catene, lo ha lavato con delicatezza. Sulla faccia dell’uomo c’era stupore: quel prendersi cura di lui, quello sì, riusciva a capirlo. Poi ha seguito Gregoire senza una parola – come un bambino. Liberare dalle catene, chiamare per nome, lavare: aveva un sapore evangelico la scena che ho visto in quel villaggio».
Ma perché, ma come un gommista africano un giorno capovolge la sua vita così? Prima dei trent’anni Gregoire era un tassista benestante, un uomo dalla vita vivace e sregolata. Poi, disavventure finanziarie, e una profonda crisi. Nel 1982, di un pellegrinaggio a Gerusalemme gli rimangono impigliate nella memoria queste parole: «Ogni cristiano deve posare una pietra per costruire la Chiesa».

Gregoire è uno che le cose le fa sul serio. Dall’orlo del suicidio che aveva sfiorato, al buttarsi nelle carceri del suo paese, sorta d’inferno in terra, ad abbracciare gli ultimi. Ma il più ultimo lo incontra un giorno in una fogna della capitale. È sudicio, straparla, ed è completamente nudo. In Africa, la completa nudità è l’emblema della follia. Mentre nelle campagne il folle è incatenato, nella città vaga nudo e randagio. Perché proprio per lui quell’incontrollabile tenerezza? È il primo pazzo di Gregoire.

Ad oggi, sono oltre 2.500 quelli che ha accolto e liberato. Curato: imparando dai medici a somministrare gli psicofarmaci elementari disponibili nel paese. E gli psichiatri occidentali che assistono alle visite tacciono. Bertoli: «Colpisce la sensibilità che ha verso gli ammalati».
Racconta ancora il medico italiano che esistono nella foresta villaggi che vivono della custodia dei folli. Sette animiste, che pure incatenano e maltrattano i pazzi, ma dietro compenso, e non lasciano avvicinare nessun estraneo. Da lontano si sentono le grida dei prigionieri. Qui Gregoire deve fermarsi, la rabbia in faccia, impotente.

Moltissimo ha fatto, però, e molto vuole fare. Non da solo. Ha suscitato attorno a sé un grande numero di amici, missionari, ex pazienti, e un’impressionante quantità di iniziative. L’associazione San Camillo di Bouaké dall’83 ha rimandato a casa centinaia di malati guariti, costruito centri di accoglienza, un ospedale per i poveri, e si occupa della cura e del sostentamento di 1.400 malati (Per informazioni e contributi, www.gregoire.it).

 
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Gregoire, sono 25 anni che hai cominciato la missione di curare i malati mentali, a cominciare dal momento in cui nel volto di uno di loro hai riconosciuto il volto di Gesù. Che bilancio faresti dell’esperienza che si è dipanata fino ad oggi?
(Ride, ndr) Come si fa a fare un bilancio del fatto che tutti i giorni, da quel giorno, io colgo il volto di Cristo in quello dei malati? Si tratta semplicemente di continuare il lavoro iniziato. Gesù Cristo è presente nella loro carne. Finché ci sono malati incatenati a un albero o dentro a una capanna, io non posso fare un bilancio di vittoria. La mia vittoria fino ad oggi è trovarli e farmi aiutare da Lui per liberarli.

Per aiutare i malati spesso è stato necessario rompere le catene con cui erano stati immobilizzati, entrare in conflitto con chi li teneva in quelle condizioni, e altro ancora. È ancora necessario battersi a questo modo per aiutare i malati mentali, oppure le mentalità sono un po’ cambiate?
Abbiamo creato tanti centri, la gente vede e questo aiuta a cambiare le mentalità. C’è un miglioramento nel modo degli africani di rapportarsi coi malati mentali, ma resta ancora da fare un lavoro immenso di sensibilizzazione, e con l’aiuto della Grazia e dello Spirito Santo lo stiamo facendo con entusiasmo. Ci chiamano in altri paesi africani, e noi con gioia andiamo per portare avanti questa opera che Dio ha voluto e che continua. Non è la mia opera, non è il mio progetto: è la Sua opera, è il Suo progetto, e Lui sceglie chi vuole per realizzarlo. Dopo l’inizio in Costa D’Avorio siamo passati in Benin nel 2004, dove si riscontrava la stessa situazione della Costa D’Avorio: malati abbandonati nelle strade o incatenati nei villaggi. Abbiamo creato un centro nel sud e uno del nord, e un terzo centro lo apriremo a Cotonou, la capitale, dove l’arcivescovo ci ha messo a disposizione una proprietà fondiaria sulla quale stiamo costruendo. L’anno scorso abbiamo aperto il primo centro in Burkina Faso, a Bobo Dioulasso, proprio dentro al recinto dove si trova il vescovado. Vescovo, preti e malati mentali si trovano faccia a faccia ogni giorno! Adesso vorremmo fare qualcosa in Togo. Lì c’è una situazione sconvolgente: nel sud, poco lontano dalla capitale, mi sono imbattuto in una spianata dove ci sono 204 persone legate o incatenate a piante e pali. È il “campo di preghiera” di una setta che dice di poter liberare i malati dalla possessione degli spiriti. Al Meeting di Rimini parlerò di questo, perché abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti per cominciare l’opera anche lì.


Quello che si fa nell’opera lo hai definito spesso come “dare la libertà ai malati”. Ora, la condizione stessa di ogni malattia, e ancor di più della malattia mentale, è la mancanza di libertà, è uno stato di schiavitù, di prigionia. Che cosa significa esattamente per te “dare la libertà ai malati”?
Significa dare loro la libertà di vivere come le altre persone, riconoscere la loro dignità di esseri umani. Non sono dei malati ai quali la malattia ha cancellato ogni qualità umana, sono esseri umani che partecipano allo sviluppo della società. Alcune delle persone che sono passate attraverso i nostri centri adesso lavorano in associazioni di protezione dei diritti umani! Bisogna saperli accogliere e bisogna saperli comprendere. Allora danno tutto ciò di cui sono capaci.

Una delle ragioni per le quali gli africani hanno paura dei malati mentali, è che molti ancora pensano che essi siano stati colpiti dagli spiriti malvagi, e che non bisogna interferire con loro. Su questo versante è cambiato qualcosa o il problema sussiste ancora? La paura degli spiriti domina la vita degli africani o è stata superata?
In molti la paura è stata superata, ma molto resta ancora da fare. Ci sono ancora africani che quando assistono alla crisi di epilessia di un malato, pensano che sarebbe giusto bruciarlo vivo per impedire allo spirito malvagio che ha colpito quella persona di contagiare altri. Ma stiamo assistendo a un’evoluzione in tutto il continente, dovuta in parte alla diffusione e all’approfondimento del cristianesimo, in parte a una migliore educazione scientifica. I nostri centri nel Benin sono collegati in rete con dispensari dove i malati vanno a prendere le medicine. Il fatto che i malati assumono i medicinali li aiuta a stare meglio e a farsi accettare dalla gente, che smette di pensare agli spiriti come causa di quelle malattie. La sensibilizzazione sulle vere cause delle malattie psichiche va fatta sempre anche presso i cristiani, perché molti di loro continuano a credere nelle possessioni. Trattano i malati mentali come secoli fa i cristiani trattavano i lebbrosi: emarginandoli e tenendoli alla larga. Bisogna fare conferenze scientifiche, educare la gente, approfondire la catechesi.


L’Africa è un continente ancora molto povero. Dove trovate le risorse materiali e finanziarie per le opere che hai creato in questi anni?
Non sono le opere che ho creato io, sono le opere che Dio ha creato attraverso di me. Tutto ciò che viene da Dio è opera sua, e allora Lui provvede perché l’opera possa continuare. Abbiamo amici in tutto il mondo che ci aiutano con soldi e assistenza sanitaria: in Italia, in Francia, in Spagna, in Canada. In Benin i vescovi ci aiutano e invitano i fedeli ad aiutarci, a fare donazioni a nostro beneficio. Ci sono anche musulmani facoltosi che ci sostengono, perché i malati sono persone di tutte le fedi religiose e noi li avviciniamo senza fare distinzioni. La Provvidenza continua il suo cammino e noi ci fidiamo di lei. Quando abbiamo iniziato i nostri progetti in Benin, non avevamo i soldi necessari ad avviarli, ma ci siamo fidati dela Provvidenza. Quando un’opera viene da Dio, Lui provvede.

Una volta tu mi hai detto che la guarigione di un malato mentale dipende per il 50 per cento dai farmaci che assume e per il 50 per cento dall’amore cristiano che riceve. Che parte ha la preghiera nel tuo “cocktail terapeutico”?
La preghiera ha un’importanza capitale nei nostri centri, dappertutto c’è una cappella dove tutti i giorni viene celebrata almeno una Messa. Perché, lo ripeto, questa opera non è la mia opera, è l’opera di Dio, e allora bisogna rivolgersi a Lui perché continui. Nei nostri centri sta nascendo una comunità di laici consacrati, autorizzata dai vescovi: ecco il segno di quello che Dio ha in serbo. La preghiera ha un’importanza capitale nella mia vita: voglio essere in comunione permanente con la Chiesa, ogni giorno vado a Messa e mi accosto all’Eucarestia. Tutti i giorni mangio il corpo di Cristo e voglio che gli altri mangino me. Voglio essere mangiato da loro.

di Rodolfo Casadei (www.tempi.it)

martedì 25 agosto 2015

La storia di Maria Angela Bertelli


La Casa degli angeli

Suor Maria Angela Bertelli

Originaria di Carpi, suor Maria Angela Bertelli 
ha scelto di vivere in baraccopoli a Bangkok 
insieme alle donne rimaste sole con un figlio disabile. 
E ha scritto un libro su di loro.


La Casa degli angeli è una struttura in missione a Bangkok, Thailandia, dove vengono accolte le mamme di bambini disabili, donne che, non si sa bene perché, hanno deciso di non abbandonare un figlio ritenuto una disgrazia e frutto di una colpa.

Che un figlio con disabilità sia una sfortuna, o quantomeno un problema, è un’idea comune a molte culture, ognuna con la propria specificità. «Nel buddhismo theravada praticato in Thailandia la disabilità viene percepita dai più come frutto del karma», spiega suor Angela. «Ovvero: ti sei comportato male in una vita precedente e questa è la giusta punizione. La colpa può essere del bambino oppure di sua madre, in ogni caso entrambi sono evitati e tenuti a distanza. I mariti stessi di queste donne spesso se ne vanno lasciandole senza alcun appoggio».

La Casa degli angeli, nella parrocchia di Nostra Signora della Misericordia in una baraccopoli di Bangkok, dal 2008 ospita una ventina di mamme con i loro bambini disabili. «Posso dire che sta diventando pian piano una comunità viva perché cresciamo insieme, e soprattutto perché io stessa tra queste donne e i loro bimbi sperimento in modo molto concreto e reale Gesù vivo e il suo amore», afferma la religiosa. Eppure, l’inizio di questa opera non è stato facile. Così come non lo è stata la vita da missionaria di suor Maria Angela.

Originaria di Carpi, a 22 anni entra nella congregazione delle Missionarie di Maria (Saveriane) di Parma. Dopo i voti viene inviata a New York per imparare l’inglese e per frequentare un corso da fisioterapista: vive ad Harlem dove – anche se non è lì per questo – si dà da fare per i giovani che incontra nelle strade del quartiere.

Poi la prima destinazione in Sierra Leone, nel ’93. È nel Paese africano da due anni quando viene rapita insieme a sei consorelle dai guerriglieri del Ruf (Fronte unito rivoluzionario). La rilasciano dopo 56 giorni di prigionia. «Noi suore non subimmo tanto violenze di tipo fisico quanto di tipo psicologico», racconta oggi, «ma non potrò mai dimenticare gli orrori visti in quei giorni. Ho conosciuto il mistero del male, di come Satana può prendere dimora del cuore dell’uomo facendogli compiere atti che non sono più nemmeno a misura d’uomo».


Dopo questa vicenda, la congregazione decide di inviarla lontano, all’altro capo del mondo: in Thailandia. «Ero a Bangkok da un anno, quando ho attraversato una grossa crisi», racconta. «Mi sentivo trenta metri sotto terra. Forse in quel momento è uscito anche tutto lo stress che avevo tenuto a bada dopo il rapimento, ma sentivo anche un’inquietudine sul modo di vivere la missione. Chiesi alla mia comunità di poter lasciare la casa in cui mi trovavo con le mie consorelle per andare a vivere da sola in baraccopoli. Fu uno strappo doloroso, ma in seguito mi è diventato sempre più chiaro che il Signore mi stava accompagnando su una nuova strada, e con il tempo si sono ricuciti i rapporti anche con chi all’inizio non aveva approvato la mia scelta».

In baraccopoli lavora già un missionario italiano del Pime, padre Adriano Pelosin, che chiede a suor Angela di occuparsi prima degli ammalati di Aids e poi dei bambini disabili e delle loro mamme, i più deboli fra i deboli dello slum. «La Casa degli angeli non è nata da una mia idea», precisa suor Maria Angela, «ma dall’iniziativa di due fidanzati, Federica e Cristiano, venuti a trovarci nel 2005. Vedendo quello che facevamo proposero di creare un luogo di accoglienza per curare in modo adeguato i bambini disabili e sottoposero il progetto alla Caritas di Venezia che accettò di finanziarlo».



Oggi la Casa degli angeli è diventata una famiglia per donne che non avrebbero potuto provvedere da sole a questi figli dalle esigenze speciali. «Vivere accanto a queste donne è una grazia enorme», confida suor Maria Angela, «perché mi fa sperimentare la gioia di vedere all’opera Gesù nelle loro vite, in mezzo a progressi e sconfitte, ma comunque sulla strada verso un bene maggiore. Per questo, per quello che vedo ogni giorno, dico che non è un’opera nostra ma di Dio».

La soddisfazione più grande? Quando una delle mamme, Lek, ha detto di suo figlio disabile psichico: «Tam è una grazia per me. È un dono di Dio per me». Per questo suor Maria Angela ha deciso di scrivere un libro in cui racconta le vicende di queste donne: «Non sono una scrittrice, ma non potevo tenere questa ricchezza solo per me».

È difficile trovare nella stessa persona azione e contemplazione. Forse per quello che ha vissuto, suor Maria Angela riesce a comunicare questa unità. «Sa qual è il momento in cui prego meglio? Quando sono in motorino in mezzo al traffico di Bangkok, magari per un’ora. Non posso perdere la concentrazione e allora ne approfitto per pregare. Ripercorro insieme al Signore i problemi delle donne della Casa degli angeli, e affido tutto a lui».


Testo di Emanuela Citterio (www.credere.it)






mercoledì 24 giugno 2015

La storia di Beatrice Fazi



"Dio è stato veramente fedele"



Con una sincerità che sorprende, Beatrice Fazi – la Melina di "Un medico in famiglia" – racconta il suo incontro con Gesù e la conversione religiosa che l’ha salvata da un profondo stato di disordine emotivo e alimentare, anche a seguito di un aborto praticato a vent’anni.

Beatrice racconta nel libro del suo cuore diventato di pietra, incapace di provare sentimenti, e di quel pozzo senza fondo in cui era caduta, tormentata da una fame inestinguibile, fisica e psichica, che non riusciva a saziare in alcun modo.
Dopo un periodo difficile in cui aveva persino iniziato a fare uso di stupefacenti, l’incontro casuale con una compagna di università la riavvicina a Dio.
La catechesi sui Dieci Comandamenti, l’inserimento in una comunità del Cammino Neocatecumenale, un pellegrinaggio a Medjugorje e l’incontro con Pierpaolo, poi diventato suo marito, l’aiuteranno a recuperare un ritmo di vita regolare e un ordine nella quotidianità scandito dalla preghiera.


Così Beatrice aveva raccontato la sua esperienza al blog Fermenti Cattolici Vivi:


Era l’estate del 2000 e io ero appena tornata dalla mia prima vacanza in montagna con il mio fidanzato nuovo di zecca. Uno che finalmente piaceva a mia madre. Giravamo a bordo della sua moto per una Roma che, dato l’Agosto inoltrato, avrebbe dovuto essere abbastanza deserta e, invece, era zeppa di ragazzi che se ne andavano a zonzo, con i loro foulard e cappellini gialli, cantando in varie lingue canzoni di chiesa e pregando ad alta voce con i rosari che facevano capolino tra le mani. Era l‘invasione dei Papa-boys!!!

Ma non solo! Anche un sacco di adulti sembravano in preda ad una meravigliosa febbre. Una stranissima malattia contagiosa i cui sintomi sembravano essere gioia, comunione, speranza, gratitudine!!! Che belli! Che atmosfera fantastica! Seduta sul sellino posteriore della moto, attenta a non farmi scoprire da Pierpaolo, cominciai a piangere in silenzio, senza un motivo preciso. Cioè, un motivo c’era: li invidiavo, avrei voluto essere una di loro, camminare con loro verso quella meta che prometteva pace, avrei voluto non sentirmi esclusa, sentirmi anche io parte di quell’Amore verso cui andavano tutti insieme come fratelli, entrare nel riposo.

Certo, tutto questo in quel momento non seppi dirmelo. Non seppi capire che in qualche modo il Signore stesse chiamando anche me, stesse offrendo anche a me quel ristoro che solo abbandonata tra le Sue braccia misericordiose avrei potuto assaporare più tardi. Avevo da poco compiuto i 28 anni e, sebbene così giovane, ne avevo già passate tante.

Sono nata in una famiglia normale con altri due fratelli e ho ricevuto un’educazione cattolica in seno ad una parrocchia che ho frequentato assiduamente fino alla prima comunione. Addirittura, per un certo periodo, in casa nostra si recitava il Rosario ogni sera. Poi si cambiò casa, finalmente di proprietà. Altro quartiere, nuove tentazioni. I miei genitori cominciarono ad avere problemi tra loro sempre più seri e alla fine si separarono. La ferita più grande: il tradimento di mio padre. La famiglia che fino ad allora, bene o male, ci aveva offerto un rifugio, cominciò a sgretolarsi: mio fratello e le sue cattive amicizie, l’approccio sbagliato alla sessualità, gli insuccessi scolastici, le frustrazioni della crescita, portavano lentamente noi figli verso una inesorabile perdita di senso.

Il primo idolo cominciò a farsi strada in me e, se non altro, a impedire che mi perdessi completamente: mi sarei riscattata assecondando quello che pareva essere un mio vero talento: volevo diventare un’attrice. Cominciai a fare esperienza in un piccolo teatro della mia città ma, appena conseguita la maturità scientifica, partii per Roma sicura che con una ferrea volontà e qualche sacrificio avrei potuto realizzare il mio sogno. In realtà ho fatto molto più la cameriera nei locali che l’attrice vera e propria pur di mantenermi e non gravare su mia madre.



In ogni caso ho cominciato a vivere in un disordine totale sia dal punto di vista emotivo che alimentare. Tiravo tardi la notte e studiavo male di giorno, mangiavo e vomitavo, uscivo, andavo a ballare, ero piena di amici o mi rintanavo in casa come fosse una tomba e non rispondevo al telefono per giorni. Non ero riuscita a concludere nulla all’università e collezionavo una delusione dopo l’altra sebbene in certi periodi dominasse l’euforia per il raggiungimento di qualche obbiettivo. In qualche modo, infatti, ero anche riuscita a ottenere bei lavori sia in teatro che in televisione e la gente cominciava pure a riconoscermi per strada. Con i miei risparmi, inoltre, avevo comprato un buco di casa ed ero riuscita a conquistare quel certo ragazzo che per lavoro faceva il cantante famoso e finalmente sarebbe stato meglio con lui che con quello di prima che addirittura era un tossicodipendente eroinomane e mi aveva fatto quasi ammalare per stargli dietro.

Ho fatto talmente tanto su e giù da avere le vertigini. E siccome ho sempre creduto che il merito dei miei successi fosse mio e che la causa delle mie frustrazioni fossero sempre gli altri, vivevo in un totale vittimismo ma alla continua ricerca di qualcosa che saziasse quella fame che comunque non riuscivo a smettere di avere.

Quanto ero lontana dalla Verità! Quanto lontana da Lui!!! Ma più quella fame cresceva e più finalmente mi avvicinavo. In fondo stavo cercando amore. Sebbene cercassi nei posti sbagliati desideravo solo e disperatamente essere amata. Invece subii un altro feroce tradimento e sopportai un altro terribile periodo di depressione.

Cominciai ad interessarmi alla filosofia buddista e, in qualche modo, la pratica della meditazione mi aiutò a lenire le mie ferite. Accadeva però un fatto strano: ogniqualvolta cercavo di concentrarmi svuotando la mente per meditare, mi appariva, ondeggiando sul muro bianco che fissavo, il volto di Gesù che fissava me. Mi attraeva, mi commuoveva.Una sera, durante uno dei miei vagabondaggi, entrai in una chiesa di via del Corso in cui esponevano il Santissimo e lo adoravano. Caddi seduta, sfinita, in un banco e, ancora una volta cominciai a sciogliermi in un pianto silenzioso, una disperata richiesta di aiuto. Credo che da quella sera abbia avuto inizio, in un certo qual modo, la mia conversione.

Quel piccolo spiraglio che si apriva ha permesso a Dio di entrare nella mia vita e trasformarla, piano piano, con tempi che solo Lui poteva perfettamente stabilire. Da lì è cominciata la “rivoluzione della Misericordia” che mi ha portato fin qui.

Non ero ancora pronta a dire il mio Amen e Dio ha rispettato i miei tempi: ha messo nel mio cuore un desiderio di Lui sempre più forte che pian piano ho imparato a riconoscere in varie circostanze, non ultima quell’estate del 2000. A quella GMG non ho partecipato ma di lì a poco, ho cominciato seriamente a cercare Dio e, quale posto migliore per cercarlo se non tornare in Chiesa?


Nella mia parrocchia c’era un viceparroco che teneva un ciclo di catechesi per giovani e adulti e richiamava tanta gente le domenica con le sue belle omelie. Me ne aveva parlato una mia vecchia compagna di università rincontrata per caso. Per caso? Mi domando oggi. Ah! Come non affermare che il Creatore è soprattutto un “creativo”! 

Andai a parlare con lui mossa soprattutto dal desiderio di “mettermi a posto con la coscienza”: la storia con Pierpaolo stava funzionando e io ero incinta della nostra prima bambina. Quello fu il primo doloroso incontro con la Verità! Quel sacerdote mi disse che non poteva assolvermi perché convivevo more uxorio con Pierpaolo che era divorziato ma che non per questo avrei dovuto scoraggiarmi: la Chiesa mi avrebbe accolta. Se ero arrivata fin lì era sicuramente per volontà di Dio, il quale ha, su ognuno di noi, un progetto meraviglioso da realizzare. Avrei dovuto obbedire astenendomi dal sacramento dell’eucarestia fintanto che la mia posizione fosse rimasta “irregolare” e andare a messa ogni domenica e, se volevo, cominciare a frequentare questo catechismo che mi avrebbe sicuramente aiutato e messo in ascolto.

Obbedii, seppur soffrendo, e quell’obbedienza spalancò le porte alle innumerevoli Grazie che Dio ha voluto donarmi fino ad oggi.
Per farla il più breve possibile, l’ordine che pervade la vita di chi si orienta verso Cristo cominciò ad illuminare tutte le scelte della mia vita. Cominciai ad essere circondata da nuove amicizie, da persone piene di Fede e, dopo circa un anno e tante mie suppliche anche Pierpaolo, che si professava ateo, cominciò a frequentare la parrocchia. Abbiamo cominciato insieme un percorso di conversione molto serio guidati dai santi sacerdoti che via via il Signore ci ha donato. Abbiamo avuto un altro maschietto e una lunga serie di piccoli e grandi miracoli quotidiani che ci hanno permesso di gustare fin da quaggiù il sapore della vita eterna, la vita piena, quella “parte migliore che nessuno potrà toglierci”.



Ma il dono più grande che abbiamo ricevuto e che, in qualche modo si ricollega alle GMG, il Signore lo ha dato al mio matrimonio. Per anni Pierpaolo ed io abbiamo obbedito alla Chiesa non accostandoci alla Comunione, e più mi innamoravo di Gesù, più soffrivo nel non poter ricevere il Suo Corpo Santo. Ho sofferto tanto da desiderare,sebbene amassi anche lui, che Pierpaolo non fosse mai entrato nella mia vita. Soprattutto perché all’inizio, quando ancora affermava di non credere, lo vedevo come unico ostacolo tra me e il Signore, e soprattutto, perché affermava anche che mai e poi mai avrebbe chiesto l’annullamento del suo primo matrimonio celebrato in chiesa.

Mi vedevo costretta a vivere per sempre come monca, incompleta, a metà. Altro che ostacolo!! Che dono è stato mio marito! Innanzitutto, l’espressione concreta di quell’Amore gratuito di chi ti ama così come sei, ti accetta imperfetta e ti lascia libera e poi, la persona con cui scoprire che è proprio vero che Dio fa nuove tutte le cose ed è capace di scrivere tra le righe storte una meravigliosa storia d’amore. Di questo infatti si tratta: di una meravigliosa storia d’amore in tre. Mano a mano che anche Pierpaolo veniva conquistato dall’Amore Misericordioso di Gesù, desiderò mettere nelle mani della Chiesa il suo precedente matrimonio perché venisse giudicato. Nello stesso tempo, in seguito ad un pellegrinaggio, sentimmo forte il desiderio di vivere un periodo di castità da offrire al Signore senza comunque accedere alla Comunione.

Come sempre accade quando, con la Sua Grazia, ci si spinge un po’ oltre noi stessi, Dio ricompensò questo nostro gesto con un periodo di rinnovato fidanzamento nel quale riscoprimmo le tenerezze di un amore trepidante di desiderio inespresso, pieno di emozioni adolescenziali, ricco di ciò che a suo tempo ciascuno di noi due aveva sprecato: ci stava offrendo intonso quel vasetto di miele che avevamo sperperato.

Ricordo che durante quel pellegrinaggio mediante il quale ci si stava preparando alla GMG di Colonia, io espressi un desiderio che però in quel momento ritenevo irrealizzabile. Avevamo già due bambini e sapevamo che alla GMG di Colonia non saremmo potuti andare e allora io chiesi al Dio Onnipotente che avevo imparato a considerare mio Padre, di permettere che la richiesta di riconoscimento di nullità del precedente matrimonio di Pierpaolo fosse accolta e che riuscissimo a sposarci in chiesa in tempo per partecipare alla futura GMG, quella del 2008. Dopo un anno di castità, però, cominciammo a entrare in crisi. Interrompemmo il voto. Continuavamo il nostro cammino e, anzi, addirittura, impazienti di regolarizzare la nostra posizione almeno davanti agli uomini e dopo aver partecipato al “Family day” , ci sposammo in Campidoglio civilmente ma ribadendo la speranza di poter al più presto celebrare lo stesso rito nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Credo che Dio ci abbia benedetti ancora quel giorno: dopo qualche tempo mi accorsi di aspettare Giovanni, il nostro terzo figlio. Un altro grandissimo dono. Un altro capitolo a parte. Ma, sorpresa delle sorprese!, dopo circa sei mesi dalla sua nascita, nella primavera del 2008, arriva la dichiarazione dal Vicariato che il matrimonio di Pierpaolo era considerato nullo e che finalmente avremmo potuto sposarci!

Quale gioia! Si può forse descrivere? Quanto era fedele il Signore!
Scegliemmo, consultando le letture dei giorni, di sposarci lunedì 7 Luglio. Si proclamava, in quel giorno, il vangelo dell’emorroissa che fu una delle prime Parole a guarire il mio cuore e, solo dopo aver quasi finito di organizzare il tutto, mi resi conto che, senza nemmeno pensarci, avrei fatto in tempo a partire in viaggio di nozze proprio nei giorni in cui avrebbe avuto luogo la GMG di Sidney! Ma vi rendete conto???? Dio è stato veramente fedele.





sabato 20 giugno 2015

La storia di Stephen Curry


“So da dove viene il mio talento, da Dio"



"Lanciare la palla verso il canestro è una forma d’arte. È un gesto imperfetto, perché come ogni arte ha migliaia di declinazioni possibili, frutto di scelte complesse e potenzialmente infinite. Guardando tirare Steph Curry, però, cominci a credere che la perfezione sia possibile" (Alessio Marchionna)


Stephen Wardell Curry, classe 1988, poco meno di un metro e novanta e poco più di 80 kg di poesia in movimento, faccia da bambino, timorato di Dio, assolutamente inarrestabile.
La sua è una storia particolare ed esemplare, ispiratrice come poche altre ne esistono: è il racconto di un ragazzo con dei limiti fisici più che evidenti che ha cambiato la concezione comune, che si è conquistato a spallate un posto nell’élite della pallacanestro mondiale. È la storia di uno di noi che ce l’ha fatta.

Steph ha sempre avuto infatti un compagno inseparabile nella sua giovane carriera cestistica: lo scetticismo di chi lo vedeva accanto agli altri giocatori. Il suo fisico snello, ossuto, non esplosivo è stato un problema ben prima di entrare nel basket professionistico: diverse università prestigiose si rifiutarono di offrire al nativo di Akron una borsa di studio ritenendolo non all’altezza di fare la differenza in una pallacanestro fisica come quella collegiale. «Troppo basso. Troppo lento. Forse buono per una carriera in Europa». Quante volte Stephen Curry si è sentito ripetere queste parole, durante il suo periodo all’High School e al College. Un ottimo giocatore, certo, ma con troppi difetti fisici per riuscire a giocare nel basket che conta.

Avendo il padre Dell, giocatore più che discreto, offerto i suoi servigi a Virginia Tech qualche anno addietro, il ragazzo provò a seguire le orme paterne. Ma anche in questo caso la risposta fu picche: gli Hokies erano pronti a prenderlo in squadra, ma come semplice “walk on player”, ossia come studente iscritto all’università senza una regolare borsa di studio. Che in soldoni significava: vieni pure ad allenarti con noi che non sei così male, poi se un giorno ci manca il dodicesimo uomo ti convochiamo e ti godi almeno una partita dalla panchina. Dopo aver ricevuto offerte da Davidson College, Virginia Commonwealth e Winthrop, Curry scelse Davidson College, una scuola che non aveva vinto un torneo NCAA dal 1969.

Bob McKillop, che dei Davidson Wildcats era allenatore, non ci mise molto a capire cosa gli era capitato per le mani. Bastarono pochi allenamenti a Steph per conquistare nel modo più totale il suo nuovo coach, che un giorno, davanti ad un nutrito gruppo di studenti del college, realizzò una di quelle previsioni destinate a lasciare il segno: “Wait till you see Steph Curry. He’s something special” disse. Bel colpo Bob...
Il fenomeno di Golden State interpreterà successivamente il suo approdo a Davidson come una precisa scelta divina, dimostrando una fede non comune: «Tutto succede per una ragione e io credo che Dio mi abbia voluto a Davidson semplicemente perché questa storia, la mia storia, potesse svilupparsi nel modo in cui si è sviluppata finora».

Il 15 marzo 2007, Steph realizza 30 punti per battezzare la sua prima partita di torneo NCAA con i Wildcats, in una sconfitta contro Maryland. Il 16 aprile, nel campus che avrebbe dovuto essere suo, a Blacksburg, Virginia, un tipo di nome Seung-Hui Cho apre il fuoco alla cieca, ammazza 32 persone, ne ferisce altre 17 e poi si toglie la vita. Sliding doors...

Le prime due stagioni a livello universitario sono da incorniciare: impiega solo 83 partite per sorpassare quota 2000 punti (con una media di 24,4 a serata). Durante il torneo NCAA 2008 fa vittime eccellenti: Gonzaga (40 punti), Georgetown (30), Wisconsin (33 di fronte a LeBron James, che l’anno dopo lo vedrà metterne altri 44 vs. NC State) e Kansas (25). Quattro partite, dieci giorni, centocinquantadue minuti, centoventotto punti. In tutta America diventa familiare quel n. 30 che vede sulla maglia rossa dei Wildcats e che ritrova poi tatuato sul suo polso, insieme alle lettere TCC (“Trust. Commitment. Care”, il mantra di coach McKillop). Davidson diventa la squadra Cenerentola, il college per cui fa il tifo tutta America e infine riesce ad entrare tra le prime 8 del torneo NCAA dopo un’assenza durata qualche era geologica. Ecco in questo video il momento in cui Steph Curry diventa STEPHCURRY!!




Stephen decide, ascoltando i consigli del padre, di rimandare un approdo in NBA a quel punto decisamente probabile per disputare la sua stagione da Junior, nella quale diventa il nuovo scoring leader di tutti i tempi di Davidson e, soprattutto, viene nominato miglior realizzatore della stagione NCAA, portando a casa una media di quasi 29 punti a partita e mettendo in fila gente come Kevin Durant.

Nel 2009 Stephen Curry ha firmato il suo primo contratto da professionista con i Golden State Warriors per 12,7 milioni di dollari, selezionato come la settima scelta assoluta. L’impatto col professionismo è tutt’altro che traumatico, e ancora una volta il “Baby-faced Assassin” riesce a far ricredere tutti coloro che gli rinfacciavano delle carenze fisiche non trascurabili: percentuali al tiro da cecchino, costanza nelle prestazioni, inizia a far girare le teste dei suoi fan, diventando un autentico eroe di culto del parquet per parecchi appassionati di basket. Viene anche nominato secondo rookie dell’anno nonostante non riesca a portare Golden State ai Playoff.

Le difficoltà maggiori però devono ancora arrivare, e si presentano nella forma più subdola e dolorosa per un giocatore molto giovane, quella dei problemi fisici persistenti. Il suo problema principale diventano le caviglie. Troppo fragili e prone all’infortunio per avere continuità a quel livello. I detrattori di Stephen Curry tornano alla carica e la stagione 2011/12 scivola via senza soddisfazioni, con un Curry troppo condizionato dagli infortuni per riuscire a incidere: scende in campo solo 26 volte e deve abbandonare i giochi molto prima del dovuto. Addio sogno playoff per il terzo anno di fila. Anche in questo caso, però, Steph si dimostra più forte dei suoi limiti, troppo tenace e testardo per cedere di fronte alle difficoltà: lavora sul suo fisico, sulla sua postura, rafforza fianchi e glutei e, così facendo, supera i problemi alle caviglie.

Come tutti i grandi, una volta toccato il fondo, il numero 30 comincia la sua risalita. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la stagione 2012/13 è stata un continuo strabuzzare gli occhi e balzare in piedi dal divano per la sorpresa dopo ogni magata del ragazzino di Akron. Che è finalmente riuscito a condurre i suoi alla post-season e, una volta salito sul palcoscenico più importante, ha recitato il ruolo di primo attore in maniera impeccabile. La storia si fa nelle partite decisive, e proprio durante quelle sfide Curry è letteralmente esploso, scatenando attorno a sé un entusiasmo immenso, dai 54 punti al Madison, tempio sacro del gioco dove spesso sono stati consacrati i più grandi di tutti i tempi, fino ad alcune prestazioni semplicemente disarmanti nei playoff, sia nella serie con Denver che in quella con San Antonio. Il 17 aprile 2013, nell'ultima partita stagionale contro Portland Trail Blazers, Curry realizza il 272º canestro da tre della sua stagione superando il record di triple in un'annata NBA che apparteneva a Ray Allen.




Osservando giocare il 30 si nota immediatamente come il suo gioco goda di una grande pulizia. Ogni gesto tecnico è eseguito sempre in modo armonico, senza sbavature. Chiunque sia il difensore non fa alcuna differenza: Steph sa quello che deve fare, conosce perfettamente la sequenza dei movimenti da compiere, e spesso sembra che la presenza di un ottimo o di un pessimo difensore davanti a lui sia un trascurabilissimo dettaglio. Se lasci più di 10 cm tra la tua mano e la sua faccia, nel momento in cui parte il tiro sai già che dovrai andare a battere la rimessa. Se per non concedergli la conclusione ti fai battere in entrata, non sperare troppo nell’aiuto del lungo: il ragazzo alza la parabola a suo piacimento e trova quasi sempre il fondo della retina. Quando non si inventa uno di quegli assist a “schiaffo” che dovrebbero essere inseriti di diritto nell’elenco delle meraviglie da preservare su questo pianeta.

In tutto ciò il nostro riesce a non essere un giocatore egoista, ossia non tende a diventare il terminale offensivo di ogni singola azione dei suoi, come viene invece rinfacciato ad altri fenomeni assoluti come Bryant o Anthony. Per Steph i compagni vengono prima di tutto, a tal punto da affermare in un’intervista che “Personally, I know that my teammates, coaches, and everyone else involved are as much a part of it as I am. With that in mind, I give glory to God for my talents and whoever is helping me, they get the credit too” ("Personalmente, so che i miei compagni di squadra, gli allenatori e tutti gli altri che sono coinvolti sono come gran parte di ciò che io sono. Tenendo in mente questo, do gloria a Dio per i miei talenti e tutti quelli che mi stanno aiutando hanno gli stessi meriti").

Nei suoi sei anni di NBA, Curry ha messo in mostra uno stile di gioco eccitante, dove una grande visione di campo, compagni e avversari si accoppia a fantastiche capacità tecniche di ball handling e a uno stile di tiro particolare ma estremamente efficace, che lo rende, senza mezzi termini, uno dei più grandi tiratori della storia di questo gioco. Quando utilizziamo l’aggettivo “eccitante”, per descrivere il modo di stare in campo di questo playmaker di 1.91 m, lo facciamo ben consapevoli della sua portata, poiché guardare Curry è un saliscendi emozionale che solo pochi giocatori riescono a trasmettere. Le sue scelte sono estreme e le selezioni elettrizzanti; può decidere di tirare in qualsiasi momento, con l’uomo addosso, dopo essersi smarcato con un passo di arretramento, così come dopo aver vagabondato libero per il campo, con il pallone sempre incollato alle mani come fosse uno yo-yo: se lo può permettere, la palla va quasi sempre dentro.

Ma Curry non ama brillare di luce propria in mezzo al buio, cerca anzi costantemente di coinvolgere i suoi compagni nella sua trance agonistica. Quando si accende, i Warriors si accendono con lui, e chiunque sia sul parquet in quel momento sale di un giro. Quando i Warriors si accendono, si accende con loro San Francisco, in una catena coinvolgente e spettacolare, quasi commovente quando ci si accorge di quanta passione la squadra del reverendo Jackson sappia suscitare nei propri tifosi.
Il momento giusto, la scintilla nell’arco dei 48 minuti può nascondersi ovunque. Gli avversari di Steph lo sanno, e giocano con la consapevolezza che quando il momento giungerà, arginare la marea gialla sarà terribilmente complicato.

Al termine della stagione 2014/15, dopo aver guidato i suoi Warriors ad uno straordinario record di 67-15 (migliore della lega), Curry riceve il premio di MVP,  migliore della regular season. Quindi Porta i suoi Warriors in Finale NBA, dopo aver battuto i New Orleans Pelicans, i Memphis Grizzlies e gli Houston Rockets. Nelle Finals riesce a battere i Cleveland Cavaliers di LeBron James per 4-2 grazie anche ad una prestazione da 37 punti in gara 5 e il 17 Giugno si laurea campione NBA riuscendo a vincere nella stessa stagione MVP e anello. Nel corso della post-season, infrange il record di Reggie Miller per triple realizzate in una edizione dei Playoff NBA.




Stephen Curry, ora, è sul tetto del mondo e forse ripensa a tutte quelle volte in cui gli hanno detto che non ce l’avrebbe fatta, che era troppo basso, troppo gracile, troppo lento. Fissa il trofeo di campione NBA e sorride; la faccia da eterno bambino che nasconde un animo gelido, da autentico killer sportivo. Quando è stato nominato miglior giocatore dell'NBA, ha risposto: “Sono un umile servo di Dio”. Parla con franchezza degli ostacoli che ha dovuto superare. “Tutto accade per un motivo”, ha affermato, “tutto ha una storia, e bisogna prendersi del tempo per capire qual è il proprio sogno e cosa si vuole davvero nella vita. Nello sport o in altri ambiti, bisogna essere consapevoli che si deve sempre lavorare per trionfare”.

Curry ha avuto parole per la sua famiglia, per il padre e la madre, fornendo la chiave di un gesto che compie spesso sul campo: “Mi colpisco il petto e punto al cielo. Questo simboleggia il fatto che ho un cuore per Dio. È una cosa che abbiamo trovato con mia madre quando ero all'università”, ha spiegato.
“Lo faccio ogni volta che entro in campo per ricordare per chi gioco. La gente deve sapere perché sono chi sono, per il mio Signore e Salvatore”.




“Tutti mi chiedete come faccio a segnare certi canestri, a vedere certe linee di passaggio. E’ bello vedere la gente che si esalta per il mio gioco, ma la risposta alle loro domande è in Dio. Quello che so fare in campo viene da lui e amo indirizzare la gente verso la fede”.

E’ uno di quei ragazzi talentuosi che hanno visto realizzare il loro sogno. E’ famoso, e in quanto tale, potrebbe concedersi ad ogni tipo di vizio esistente, passare da una donna all’altra, vivere una vita dissoluta potendo contare sul suo stipendio dorato. E invece è sposato da due anni e mezzo con Ayesha, conosciuta da adolescente nella chiesa che frequentava. Ha una figlia Riley per la quale dice: “posso anche segnare 50 punti, ma niente mi fa brillare gli occhi come il sorriso della mia bimba”.

E in un mondo come quello dello sport, dove prevale l’individualismo e dove la vanità la fa da padrona, un esempio come quello di Stephen Curry è come un raggio luminoso: “So da dove viene il mio talento, da Dio. E io non gioco a basket per fare 30 punti a partita, ma per esserne testimone e condividere la testimonianza. Amo indirizzare la gente verso colui che è morto sulla croce per i nostri peccati: è grazie a Lui che c’è un posto in paradiso che ci aspetta. E questa consapevolezza vale molto più di un trofeo.”

mercoledì 17 giugno 2015

La storia di Sarah Salviander


L’attrazione verso lo spazio
 era un desiderio intenso di una connessione con Dio



Ha fatto il giro di molti siti web internazionali la testimonianza della dott.ssa Sarah Salviander, ricercatrice presso il Dipartimento di Astronomia dell’Università del Texas e docente di Astrofisica presso la Southwestern University. La storia della sua conversione è davvero incredibile, originatasi dai suoi studi scientifici e dallamorte della figlia. Vale la pena prendersi cinque minuti per leggere le sue parole.

«Sono nata negli Stati Uniti, ma cresciuta in Canada», ha scritto la scienziata riassumendo quanto ha raccontato nel periodo pasquale in una chiesa di Austin (Texas) dove era stata invitata. «I miei genitori erano atei anche se preferivano definirsi “agnostici”, sono stati gentili, amorevoli e morali, ma la religione non ha giocato alcun ruolo nella mia infanzia».

«Il Canada era già un paese post-cristiano», ha proseguito, «col senno di poi è incredibile come per i primi 25 anni della mia vita ho incontrato solo tre persone che si sono identificate come cristiane. La mia visione del cristianesimo era fortemente negativa, guardando indietro ho capito che era dovuto all’assorbimento inconscio della generale ostilità verso il cristianesimo comune in Canada e in Europa. Non conoscevo nulla del cristianesimo ma pensavo che rendeva le persone deboli e sciocche, filosoficamente banale».

A venticinque anni la Salviander, che allora abbracciava la filosofia razionalista del filosofo Ayn Rand, si è trasferita negli Stati Uniti per frequentare l’università: «Mi sono iscritta al programma di fisica presso la Eastern Oregon University percependo subito l’aridità e la sterilità dell’oggettivismo razionalista, incapace di rispondere alle grandi domande: qual è lo scopo della vita? Da dove veniamo? Perché siamo qui? Cosa succede quando moriamo? Mi sono anche accorta che soffriva di una coerenza interna: tutta l’attenzione è rivolta alla verità oggettiva ma mancava una fonte per quella verità. E, tutti concentrarti a godersi la vita, gli oggettivisti razionalisti non sembravano provare alcuna gioia. Al contrario, erano rabbiosamente preoccupati di rimanere indipendenti da qualsiasi pressione esterna».

L’attenzione è stata così completamente rivolta agli studi di fisica e matematica, «sono entrata nei club universitari, cominciai a fare amicizia, e, per la prima volta nella mia vita, ho incontrando i cristiani. Non erano come i razionalisti: erano gioiosi, contenti e intelligenti, molto intelligenti. Sono rimasta stupita di scoprire che i miei professori di fisica, che ammiravo, erano cristiani. Il loro esempio personale ha cominciato ad avere una certa influenza su di me, ritrovandomi sempre meno ostile al cristianesimo. In estate, dopo il mio secondo anno, ho partecipato a uno stage di ricerca presso l’Università della California aderendo ad un gruppo del Center for Astrophysics and Space Sciences impegnato nello studiare le prove del Big bang. Sembrava incredibile trovare la risposta alla domanda sulla nascita dell’Universo, mi ha fatto pensare all’osservazione di Einstein che la cosa più incomprensibile sul mondo è che è comprensibile. Ho cominciato a percepire un ordine sottostante all’universo. Senza saperlo, stavo risvegliando in me quello che il Salmo 19 dice chiaramente: “I cieli narrano la gloria di Dio; il firmamento annunzia l’opera delle sue mani”».

ordine universo

Dopo questa intuizione la sua ragione si progressivamente trasformata in un’apertura al Mistero, «ho iniziato a rendermi conto che il concetto di Dio e della religione non erano così filosoficamente banale come avevo pensato. Durante il mio ultimo anno ho incontrato uno studente di informatica finlandese. Un uomo di forza, onore e profonda integrità che come me era cresciuto come ateo in un paese laico, ma aveva abbracciato Gesù Cristo come suo personale Salvatore a vent’anni attraverso un’intensa esperienza personale. Ci siamo innamorati e sposati. In qualche modo, anche se non ero religiosa, ero confortata nel sposare un uomo cristiano. Mi sono laureata in fisica e matematica in quell’anno e in autunno ho iniziato ad insegnare Astrofisica presso l’Università del Texas a Austin».

Il penultimo passaggio del suo percorso è stato l’incontro, anch’esso casuale, con un libro scritto da Gerald Schroeder, The Science of God. «Sono stata incuriosita dal titolo, ma qualcos’altro mi ha spinto a leggerlo, forse la nostalgia per una connessione più profonda con Dio. Tutto quello che so è che quello che ho letto ha cambiato la mia vita per sempre. Il dottor Schroeder è un fisico del MIT e un teologo, mi resi conto che incredibilmente la Bibbia e la scienza sono completamente d’accordo. Ho letto anche i Vangeli e ho trovato la persona di Gesù Cristo estremamente convincente, mi sentivo come Einstein quando disse di essere “affascinato dalla figura luminosa del Nazareno”. Eppure, nonostante avessi riconosciuto la verità e fossi intellettualmente sicura, non ero ancora convinta nel mio cuore».


L’approdo al cristianesimo è avvenuto solamente due anni fa attraverso un drammatico evento: «mi è stato diagnosticato il cancro, non molto tempo dopo mio ​​marito si è ammalato di meningite ed encefalite, guarendo per fortuna soltanto tempo dopo. La nostra bambina aveva circa sei mesi e abbiamo scoperto che soffriva trisomia 18, un’anomalia cromosomica fatale. Ellinor è morta poco tempo dopo. E’ stata la perdita più devastante della nostra vita, mi ha colto la disperazione fino a quando ho lucidamente avuto una visione della nostra bambina tra le braccia amorevoli del suo Padre celeste: solo allora ho trovato la pace. Pensai che, dopo tutte queste prove, io e mio marito non eravamo solo più uniti ma anche più vicini a Dio. La mia fede era reale. Io non so come avrei fatto di fronte a tali prove se fossi rimasta atea. Quando si hanno venti anni si è in buona salute, c’è la famiglia intorno e ci si sente immortali. Ma arriva un momento in cui la sensazione di immortalità svanisce e si è costretti a confrontarsi con l’inevitabilità del proprio annientamento e di quello dei propri cari».

Nella conclusione la dott.ssa Salviander ha spiegato i motivi della sua testimonianza pubblica: «Amo la mia carriera di astrofisico. Non riesco a pensare a nient’altro di meglio che studiare il funzionamento dell’universo e mi rendo conto ora che l’attrazione che ho sempre avuto verso lo spazio altro non era che un desiderio intenso di una connessione con Dio. Non dimenticherò mai quando uno studente, poco tempo dopo la mia conversione, si è avvicinato chiedendomi se era possibile essere uno scienziato e credere in Dio. Gli ho detto di si, naturalmente. L’ho visto visibilmente sollevato e mi ha riferito che un altro professore gli aveva invece risposto negativamente. Mi sono chiesta quanto altri giovani erano alle prese con domande simili, così ho deciso di aiutare coloro che stanno lottando con il dubbio. So che sarà una strada difficile da percorrere, ma il significato del sacrificio di Gesù non lascia dubbi su quello che devo fare».


martedì 16 giugno 2015

La storia di Giovanni Lindo Ferretti


Se parli di me dobbiamo fare un giro in chiesa...


Dal punk filo-sovietico dei CCCP 
al ritorno a casa nell'Appennino emiliano

Giovanni Lindo Ferretti è un cantautore, scrittore, attivista e attore, noto soprattutto per essere stato cantante e paroliere nella band CCCP Fedeli alla linea, e poi nei CSI e nei PGR
È considerato uno dei padri del punk italiano, nonché uno degli artisti più originali e significativi nell’Italia del secondo dopoguerra.

E' nato a Cerreto Alpi, il 9 settembre 1953 e cresciuto in una famiglia tradizionale cattolica.

«Sono nato in un periodo in cui la disgrazia si era particolarmente accanita contro la mia famiglia. Mio padre è morto quando mia madre ha scoperto di essere incinta. Dopo la sua morte mia madre ha dovuto mandare avanti tutta la famiglia, compresi i vecchi e i malati, ed è stato un periodo molto difficile e di estrema povertà. Sono stato allevato qui a Cerreto Alpi in una comunità tradizionale e posso dire di essere stato un bambino cattolico, felice perché amato. Crescere in una famiglia tradizionale vuol dire che non sono mai andato a catechismo: era mia nonna che si preoccupava della mia educazione religiosa. Visto che in paese esisteva una pluri-classe e lo studio non era eccellente sono stato mandato in collegio dalle suore di Maria Ausiliatrice».

Nell'adolescenza, viene attratto dall'ideologia del '68. Scrive in un suo libro: "Giovanotto sono stato succube e agente di un'ideologia falsificante che estirpava, in baldanzosa marcia, ogni legame organico".

«Fino alle scuole medie inferiori ho avuto una educazione cattolica, poi, la mia adolescenza ha coinciso con il 1968 e, in quel particolare momento storico, ho abbandonato con molta buona volontà tutto ciò che ero, tutto ciò che mi avevano insegnato. Quando sono entrato al liceo scientifico pubblico ho pensato bene di rigirare il mio mondo, di ricostruirmi nuovo. Un uomo nuovo adatto ai tempi e con grandi aspettative: un po' come uscire dalla superstizione per avviarmi verso un luminoso futuro scientifico e materialista».

«Vivevo secondo modi e ritmi che più passava il tempo più si rivelavano angusti. Senza soddisfazione. Potevo ricondurre tutte le mie scelte di vita all’impatto adolescenziale con il mondo moderno. "I can’t get no satisfaction" cantavano i Rolling Stones ed io ne fui rapito ma ero cresciuto nella tradizione cattolica, avevo imparato e sperimentato molte cose. Una primogenitura, una dote, che alla prova dei fatti si sarebbero dimostrate inalienabili. Anche nel periodo di maggior distacco dalla Chiesa cattolica, non ho mai troncato in maniera assoluta con ciò che ero prima».

Per cinque anni, prima di iniziare a cantare, è stato un operatore psichiatrico. 
«Quell'esperienza mi ha toccato profondamente, senza non avrei mai avuto il coraggio e, forse, il cattivo gusto di inventarmi cantante. Dopo aver lavorato per cinque anni come operatore psichiatrico ho pensato di aver saldato il mio debito con la società. È come se mi fossi accollato un dolore della società che, prima, era stato nascosto nei manicomi e, poi, era stato rigettato sulle famiglie e sugli operatori psichiatrici come me. Quei cinque anni mi hanno fornito un'attitudine ad accettare la vita nella sua complessità e la sofferenza che non si può evitare. Dopo così tanto disagio psichico e fisico, il fatto che io fossi diventato un cantante punk mi sembrava plausibile. Uno dei miei matti, quando tornai a trovarlo, mi abbracciò e mi disse: "Era ora che tu venissi dalla nostra parte!"».

Dopo aver lavorato cinque anni come operatore psichiatrico, decide di abbandonare l'Emilia e di viaggiare per l'Europa. A Berlino incontra Massimo Zamboni, con il quale nel 1982 fonda i CCCP Fedeli alla linea, ampiamente considerati uno dei più importanti gruppi italiani degli anni '80. Scioltisi nel 1990, nel 1992 sempre con Massimo Zamboni ed assieme al nucleo dei primi Litfiba, fonda il Consorzio Suonatori Indipendenti (CSI), scioltosi nel 2000. 

«Di sicuro ero sbandato. Dissipare la vita, per me, non è stata una questione di grandi idee ma un problema di quotidianità. La mattina mi alzavo tardi, bighellonavo, preparavo un concerto e, infine, mi esibivo sul palco. Una vita che pensavo fosse libera ma che, invece, era schiava di ogni moda stagionale...  Già prima della malattia, avevo iniziato a pensare che la vita che mi ero costruito non era di così grande interesse e gradimento come avevo immaginato e continuavo con sempre maggiore insoddisfazione pensando che occorresse cambiare radicalmente: fornire un senso alla mia vita, tornarmene a casa».




Nel momento di maggiore successo, una casa da ristrutturare e un tumore al polmone l'hanno "ancorato alla vita" e aiutato a salvarsi.

«Grossomodo tra il 1999 e il 2001, nel periodo in cui il mio gruppo musicale, i Csi (Consorzio suonatori indipendenti), è diventato troppo fortunato, sono salito sul palcoscenico, per ben due anni, con gli occhi bendati per non vedere niente e la speranza che i concerti finissero alla svelta.
La malattia che dovevo affrontare e la casa da ristrutturare, che avrebbero potuto essere considerate soltanto una doppia disgrazia, mi hanno obbligato a fare seriamente i conti con la vita e mi hanno aiutato a cambiare radicalmente la mia quotidianità. 
La ristrutturazione della casa di famiglia, dove sono nato e cresciuto, ha a che fare con un'idea che travalica la mia singola esistenza. Inizialmente, volevo rimetter mano soltanto al tetto, poi, però, è venuta un'alluvione e la casa si è riempita d'acqua. Così sono sceso alle fondamenta e non avevo abbastanza soldi. Due gravosi problemi: salvarmi la vita, non far crollare la mia venerabile dimora. Partendo da questi due dati, profondamente negativi, ho accettato la realtà e sono andato avanti, cominciando a ringraziare Dio per ciò che avevo».

Quindi avviene il ritorno alla casa di famiglia e al cristianesimo. 

«Quando sono tornato a vivere nella casa della mia famiglia, a Cerreto Alpi, c'era ancora un prete in paese. Sono andato da don Guiscardo e gli ho esposto tutti i miei problemi e i miei dubbi. Don Guiscardo mi ha risposto che non c'era molto da discutere. Ogni giorno, non solo la domenica, c'era la messa. E poi c'erano le festività durante l'anno. Ho riscoperto la dimensione al tempo stesso naturale e liturgica dell'anno solare. Tornare a casa, per me, ha significato tornare nella casa della mia famiglia e risentirmi generazione su generazione. Chi mi guarda, guarda anche mio padre, mia madre e mio nonno. È una bella responsabilità!»

In quel periodo viene colpito anche dal modo di vivere la malattia di san Giovanni Paolo II.  

«Quello che mi ha molto colpito è stato il modo in cui ha vissuto la propria vecchiaia, la malattia. L'accettarsi compiutamente nella propria forza e nella propria debolezza. Smisi di leggere quei giornali che auspicavano le dimissioni del Papa malato e iniziai ad ascoltare l'Angelus, in televisione o direttamente a Roma. Ci sono stati momenti in cui mi sembrava che quel dolore, quel viso sofferente, quella persona malata parlassero direttamente a me. Legavo quella sofferenza al dolore dei vecchi della mia famiglia, alla loro agonia. È un grande dono se un vecchio può permettersi una agonia nelle propria casa assistito amorevolmente dai propri cari. Non si possono sciupare questi momenti. È un insegnamento vitale che si trasmette alle generazioni e non si verifica in altra situazione. Il Papa, usando i media e pur essendone usato, ha fatto un dono credibile non solo al popolo di Dio ma a tutti coloro che lo hanno visto. Ha mostrato che si può morire con una grande dignità nell'accettazione del mistero della vita. La sofferenza non si può spiegare con le parole si può solo vivere e si deve mostrare come ha fatto Giovanni Paolo II».

Fondamentale però è stato il suo incontro con Ratzinger.

«Nei miei giorni di uomo, Ratzinger era l’esemplificazione ostentata di tutte le colpe della Chiesa Cattolica e della Reazione alle magnifiche sorti e progressive, summa di ogni oscurantismo ideologico, fino ad ombreggiare simpatie naziste. "Il troppo stroppia" diceva mia nonna e dopo aver letto un ennesimo articolo che lo denigrava decisi di entrare in libreria: - ma questo Ratzinger ha scritto qualcosa? - uscii con alcuni suoi testi e cominciai leggendoli un’altra tappa del mio cammino sulla terra. Avevo trovato un maestro. Ritagliai una sua fotografia, l’incorniciai posizionandola bene in vista e divenne una presenza quotidiana, familiare. Ne parlavo con gli amici, litigavo per lo più; piansi di gioia e commozione quando venne eletto al soglio pontificio. L’ho difeso sempre e mi ha fatto ridere scoprire che c’è stato un periodo in cui una clausola, a mia insaputa, era stata aggiunta ai miei contratti: è proibito parlare del Papa in presenza dell’artista. Questo perché quando sentivo parlare male di Benedetto XVI mi innervosivo oltremodo e ne nascevano liti furiose per le stupidaggini che sentivo. Naturalmente io ho cumulato molte colpe nella mia vita e accetto la stupidaggine mia e altrui. Non sono stato meno sciocco di coloro che adesso si comportano da stolti nei confronti del Santo Padre. Ma io difendo il Papa e non sono in grado di accettare certe banalità determinate da ignoranza, malafede e superficialità».

Anche nel periodo dei CCCP, Ferretti non aveva mai abbandonato la ricerca spirituale e religiosa.

«Io ad ogni modo sono religiosissimo, oltre ad essere iscritto al PCI e a fare il cantante dei CCCP. Se m'aspetto che qualcuno mi dica qualcosa me l'aspetto da un uomo di religione, non me l'aspetto da un altro. Gli altri - c'ho già pensato - non hanno niente da dirmi», dichiarava il cantante nel 1989.

«Non sono mai stato ateo e ho sempre avuto una visione carnale della dimensione della Creazione. Quando mi sono distaccato dalla Chiesa cattolica non ho abbandonato l'idea della Creazione. Per un periodo ho subito il fascino dell'islam. Poi ho iniziato a coltivare un grande amore per la letteratura e la storia ebraica - che è già quasi "un ritorno a casa" - e per un periodo di tempo ho frequentato il buddismo».

«Do­po aver cercato il senso in mille modi senza trovar­lo l'ho trovato tornando a casa. Al mio mondo di quando ero bimbo: i monti, il rosario [..] - Ma Giovanni Lindo Ferretti oggi chi è? - Nel Te Deum può scoprirlo. Sono uno che iniziò a curiosare tra i libri dell'allora cardinal Ratzinger per capire perché molti ne parlassero male. E ora che so­no tornato a casa, Benedetto XVI è il mio maestro».


Finita l'esperienza con i Cccp, con i Csi e con i Pgr (Per grazia ricevuta) chi è oggi Giovanni Lindo Ferretti: un musicista, uno scrittore o un attore di teatro?

«Direi un cantore. Porto in giro due piccoli spettacoli, ma non posso lavorare più di due o tre serate al mese perché devo accudire mia madre. Da quattro anni vado in giro con voce e violino, oppure con voce, violino, organetto e una seconda voce maschile. Ho sperimentato il piacere di uno spazio scenico non deputato ai concerti. Cortili, aie, radure. Più di cento concerti in chiesa, per quanto esibirmi in chiesa mi crei sempre un po' di timore e di imbarazzo. Questo non trova corrispondenza nel pubblico, nei sacerdoti e alla fine mi rasserena». 

«Il livello essenziale della mia dimensione pubblica è il piacere della parola, la sua musicalità, il gusto arcaico della parola. Non sono legato alle sperimentazioni o alle avanguardie del Novecento, ma sono intriso di oralità, legato ai salmi, all'epica. Credo che la parola sia il dono più grande che il Creatore ha fatto all'uomo. La parola è vita. E io, fra l'altro, vivo di parole».

E dedica la sua vita alla famiglia, alla montagna e agli amati cavalli, come ha raccontato anche al papa emerito Benedetto XVI in un recente incontro.

«Ho rimesso nelle sue mani la mia vita e tutte le persone che ne fanno parte: i concerti, la montagna, anche i cavalli; lo sconforto, la stanchezza, la gioia, la riconoscenza.
- lei è molto giovane - sorriso
- Santo Padre sono vecchio da ogni punto di vista, non fosse per la Fornero sarei in pensione - sorriso
- No, no lei è molto giovane, il suo viaggio non è ancora finito, ha molte cose da fare -.
- Santo Padre mi benedica e con me benedica i peggiori, quelli che non hanno possibilità alcuna se non nella misericordia, nella compassione, nell’amore di Dio».





lunedì 15 giugno 2015

La storia di Maurice Bignami




In carcere ho scoperto la libertà e il perdono



Ex terrorista rosso, fu condannato a trent’anni per omicidio e per aver capitanato fra il 1979 e l’81 Prima linea, formazione armata sanguinosissima nata a Firenze nel 76 da spezzoni di Lotta continua, Potere operaio e Autonomia milanese (sciolta in carcere fra l’82 e l’83). Oggi dirige una casa famiglia per anziani gestita dalla Caritas di Roma.

«Mio padre è stato uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano, ha lavorato giovanissimo per il Centro esteri del partito a Parigi, è stato segretario della Fgci di Bologna prima di essere arrestato e condannato a dieci anni di carcere dal Tribunale speciale. Comandante durante la resistenza, Commissario politico della Divisione Modena, è stato il primo rifugiato politico italiano in Cecoslovacchia, inseguito da un mandato di cattura per cosiddetti “reati partigiani”. Fin da piccolo, a Parigi, sono stato educato a una idea di militanza politica che ti impegna totalmente, non a tempo determinato o semplicemente in termini ideologici, moralistici o sentimentali. Sapevo che mio padre era iscritto al Partito comunista francese con un falso nome: Benjamin, e che la clandestinità è normale condizione di vita per chi milita nel campo operaio. Gli “zii” che frequentavano casa mia erano tutti ex partigiani e militanti delle Brigate internazionali durante la guerra civile in Spagna. Alcuni erano ancora impegnati in quella lotta e mio padre, quando se ne tornavano in patria, mi diceva: “Saluta zio Paco, non è detto che lo si riveda..“. Quando gli fu infine consentito di tornare a Bologna, nel ‘64, mi ritrovai in un Paese di cui non conoscevo la lingua (a casa, i miei parlavano fieramente il bolognese), ma nel quale potevo essere finalmente comunista alla luce del sole. Subito, aderii alla Federazione giovanile ma, pur essendo Bologna una città straordinariamente viva, politicamente e culturalmente, la militanza che mi ritrovai a vivere non somigliava che larvatamente a quella pienezza d’impegno a cui mi pareva naturale di dover corrispondere. Già nel ‘66 aderivo a Potere Operaio emiliano-veneto; poi, con i romani, fondammo Potere Operaio e nel ’74, con Negri, Autonomia operaia. Quando le Brigate rosse rapirono Aldo Moro, mi parve indispensabile frappormi al loro progetto ed entrai in Prima Linea».

Bignami 35 anni fa uccise a Milano il giudice Guido Galli. Era il 19 marzo 1980 e quell’omicidio non fu né il primo né l’ultimo del gruppo di Prima Linea di cui Bignami era uno dei capi. Poi nel 1981 l’arresto, il carcere, la dissociazione.

«Il coinvolgimento in una organizzazione armata non ha soltanto risvolti politici, dottrinali, penali, ecc, ma anche – e soprattutto, dopo un po’ – aspetti etici ed esistenziali che si fanno prioritari e le cui conseguenze ti divorano. Per dirla con Tolkien, non si possono usare le armi del nemico, specialmente quelle più sanguinarie, e non solamente perché, in quel modo, inevitabilmente lo si rafforza, ma perché ti entra dentro e ti fa simile a lui. Rinuncerei senza problemi a tutti gli anni che hanno preceduto il carcere, ma non abdicherei a un solo giorno di galera. Non per masochismo o per un bisogno irrefrenabile di espiazione, ma perché lì, in quel luogo infernale deputato per definizione alla separazione, all’alienazione, ho gustato per la prima volta cosa voglia dire essere un uomo libero. Tormentato – si può essere un ex terrorista, infatti, non un ex assassino –, pieno di dubbi e di consapevoli debolezze – era ora! –, angariato da un meccanismo di per sé infame e teso alla tua demolizione come soggetto autonomo, ma finalmente affrancato da quel sapere ideologico che mi aveva portato alle soglie della verità, e poi ributtato indietro. Quelle quattro mura hanno avuto per me la forza paradossale di esaltare la libertà, che inizia – sempre! – da “sapere di non sapere” e quindi da un’apertura mentale laicamente spregiudicata. In quel luogo ho di nuovo risentito tutte le istanze di giustizia, di bellezza, di bontà che erano al fondo incorrotto del mio cuore, erano state il motore originario del mio impegno totalizzante e ora mi indicavano qual’era il mio vero destino. Se poi ti viene concessa la grazia di sapervi dare un nome, a quel destino...»

Grazie all’incontro con sacerdoti come don Luigi Di Liegro o padre Paolo Bachelet, fratello del vicepresidente del Csm ucciso dalle Br, avviene in carcere la scoperta di Dio e un cammino di servizio per gli ultimi. Prima come portiere all’ostello per barboni della Caritas di Roma, oggi come responsabile di una casa famiglia, sempre della Caritas, per anziani in gravi difficoltà.

«Sì, mi considero fortunato. Grazie all’incontro con tanti sacerdoti ho scoperto il perdono di Dio. Poi, grazie alla lungimiranza di alcuni politici, ho avuto il perdono dello Stato. Il perdono di chi ho fatto soffrire direttamente l’ho avuto da qualcuno, da altri ancora no. Certo che lo vorrei, ma non lo pretendo. Posso solo pregare per loro». 

«Fondamentale, fu la gratuità con cui fummo guardati da cappellani come don Salvatore Bussu o da religiose come suor Teresilla ad aprirci il cuore. In loro vedemmo il Padre che abbandona le altre 99 pecore per andare indietro a quella smarrita, cioè noi».

«Io non avevo mai incontrato un prete prima del 1982. Nel momento in cui finisco in carcere non faccio che incontrare preti. All’inizio in questi incontri mi prendono a "sberle" per portarmi al pentimento. Ed è un precipitare verso il riconoscimento della propria totale e assoluta nefandezza e bisogno di perdono. E la domanda di perdono la fai a Dio. Ma questo periodo è stato brevissimo. Perché questi sacerdoti mi prendevano a "sberle" perché la smettessi di piangermi addosso. E che cominciassi, invece, a ringraziare il Signore del dono che mi aveva fatto».

«Grazie all’incontro con una suora, ha capito che la vera rivoluzione è Cristo. Padre Bachelet è stato per me un amico. Ha trasformato la sua sofferenza in un’occasione per trasformare me».

Oggi Bignami ricorda quel 13 marzo come l'Inferno.

«C’era l’inferno, il luogo in cui Dio non c’è. Dio è così attento alla tua libertà che non c’è là dove non vuoi che lui ci sia. L’inferno è il "no" assoluto. Sono stato ripreso per la collottola. Ma Dio è sempre stato vicino a me, e attendeva solo che io aprissi il mio cuore».




domenica 7 giugno 2015

Storia di Biagio Conte


L’ANGELO DEI BARBONI 
GUARITO A LOURDES

Missionario in saio - Un intenso primo piano di Biagio Conte. Foto di Franco Lannino/ANSA


Nato in una famiglia benestante siciliana, figlio di un imprenditore edile, all’età di 16 anni Biagio termina gli studi e decide di aiutare il padre nell’azienda di famiglia. La sua giovinezza trascorre tra auto sportive, storie d’amore con belle ragazze, divertimenti e vita notturna. 

Qualche anno dopo, di fronte al disagio sociale presente in alcuni quartieri di Palermo, entra in crisi constatando la distanza tra la sua vita agiata “borghese” e la povertà di molti suoi concittadini. A un certo punto decide di cambiare vita e di allontanarsi, temporaneamente, da Palermo. 

A Firenze, dove si era iscritto a una scuola serale per artisti, per la prima volta entra in chiesa spontaneamente, senza che nessuno lo obbligasse. Fallita pure l’esperienza di aspirante artista, dopo quella di imprenditore, Biagio torna a Palermo e si ritira nella sua casa in campagna: «Sentivo il bisogno di perdermi tra i pensieri sotto lo sguardo di Gesù… La mia salvezza fu il volto di un Cristo in croce che, da una parte della mia stanza, mi puntava misericordioso e sofferente. Era lì da sempre e io lo guardavo per la prima volta. Nei suoi occhi riconobbi la disperazione dei bimbi poveri di Palermo. Le ferite della crocifissione trasudavano pene e offese, ma anche salvezza e riscatto».

Riacquistata definitivamente la fede, Biagio inizia a manifestare all’esterno la sua ribellione interiore contro le ingiustizie e le disuguaglianze. Per un giorno intero, attraversa la città di Palermo con un manifesto contro il razzismo, contro la mafia, contro la corruzione, contro l’opulenza e contro lo sfruttamento dei lavoratori. I passanti lo scambiarono per un “barbone”, ignorarono la sua estrema rivolta contro la società dominante. Amari i suoi ricordi: «Ero ancora più solo, si era aperta un’altra ferita nella mia anima, perché chiedevo solidarietà nei confronti delle mie battaglie e invece avevo ricevuto solo disprezzo e critiche. Il rimedio si era rivelato peggiore della malattia».

All’età di 26 anni, dunque, il futuro missionario laico chiede aiuto a Dio, scrive una lettera d’addio per i genitori, inizia a vagare nell’entroterra siciliano, tra le montagne deserte e incontaminate. I familiari, allarmati, contattarono persino la celebre trasmissione di Rai 3, Chi l’ha visto? Il giovane dormiva nelle grotte e si cibava di bacche e di erbe selvatiche, pregando sempre Dio: «Tutto il mondo mi aveva abbandonato, tranne Gesù, che mi era rimasto accanto, che aveva cancellato la mia sofferenza e che aveva guarito il mio male interiore». In provincia di Caltanissetta, chiede ospitalità a una famiglia di pastori, che lo accolgono come un figliol prodigo nella loro fattoria, dove intraprende anche un nuovo cammino religioso, leggendo la Bibbia e il Vangelo insieme ai padroni di casa. «Il mio rapporto con Dio, fino a quel momento, era stato silenzioso, privato, intimo e personale. Nella fattoria, invece, per me la religione era diventata comunione con gli altri. Nelle letture degli evangelisti avevo trovato le risposte ai miei malesseri e avevo riempito il mio cuore e la mia anima».

Abbandonata nuovamente la Sicilia, Biagio s’incammina alla volta dell’Umbria, seguendo il percorso del suo santo preferito, Francesco d’Assisi. Porta con sé soltanto un cane e lo chiama “Libertà”, in omaggio al suo viaggio fondato sulla libertà assoluta, materiale, morale e spirituale. «Una volta giunto davanti alla basilica di San Francesco», racconta, «ebbi un momento di vuoto e di assoluto silenzio, poi avvertii subito una grande gioia, serenità e pace. Prima di entrare, baciai in terra, in segno di ringraziamento verso nostro Signore e verso san Francesco».

Al suo ritorno in Sicilia, come promesso alla madre, Conte decide a questo punto di dedicarsi agli ultimi e ai poveri. Inizia, così, a portare cibo, coperte e vestiti ai “barboni” della stazione centrale. Vive insieme ai senzatetto, condividendo gioie, dolori, stenti, problemi e difficoltà quotidiane. Difende i “barboni” da quanti intendevano cacciarli dalla stazione. Nella sua battaglia al fianco dei senza-casa, Conte incontra ricchi caduti in disgrazia e poveri assoluti, borghesi in fuga dall’esistenza e disoccupati licenziati dal datore di lavoro, immigrati con elevati titoli di studio e palermitani al lavoro sin dall’adolescenza.


Dopo tante lotte e occupazioni, nel maggio del 1993, finalmente ottiene la concessione della struttura di via Archirafi 31, che era la sede del vecchio disinfettatoio di Palermo, abbandonato da circa 30 anni. Insieme all’instancabile don Pino Vitrano, fonda la Missione speranza e carità, affiancata, in seguito, dalla Cittadella del povero e della speranza nell’ex caserma dell’aereonautica di via Decollati e dal Centro di accoglienza femminile presso l’ex convento di Santa Caterina. E la storia di queste opere prosegue ancora oggi, dando rifugio e calore umano a un migliaio di persone. La Missione offre un letto, tre pasti al giorno, l’igiene personale, assistenza medica e farmaceutica. E poi laboratori di reinserimento lavorativo e aggregazione.

La scorsa estate, dopo un viaggio a Lourdes insieme all’Unitalsi e dopo l’immersione nell’acqua benedetta, Conte ha superato un grave problema alla schiena, ha abbandonato la sedia a rotelle ed è tornato a camminare perfettamente. Dopo la sua guarigione, i fedeli hanno gridato subito al miracolo e la Curia di Palermo ha dato ampio spazio alla vicenda raccontandola attraverso i propri organi d’informazione e avvallandone l’inspiegabilità scientifica. «Per me è stata una grazia inaspettata che ho ricevuto dal buon Dio che ha incaricato la sua madre Maria » ha dichiarato il missionario laico. «Dopo il bagno in piscina, non ho sentito più il bisogno né della sedia a rotelle né del bastone, che però porto ancora con me in ricordo del viaggio fatto da Palermo ad Assisi quando ero un giovane in ricerca. Dopo essermi immerso ho avvertito come un fuoco dentro».

(da un articolo di Pietro Scaglione, www.credere. it)


Così racconta la sua storia fratel Biagio: 

La Missione nasce dall’esperienza profonda di chi ha incominciato a cercare la verità, la vera libertà e la vera pace, distaccandosi dal mondo materialistico e consumistico.

Stanco e dalla vita mondana che conducevo, ho sentito nel cuore di lasciare tutto e tutti; me ne andai via dalla casa paterna il 05.05.1990 a 26 anni, con l’intenzione di non tornare più nella città di Palermo, perché questa città e società mi avevano tanto ferito e deluso.

Mi addentrai tra la natura e le montagne all’interno della Sicilia, iniziando un’esperienza di eremitaggio tra montagne, laghi, fiumi, sotto il sole, la luna e le stelle.

Poi successivamente cominciai a sentire sempre più che Gesù (quell’uomo giusto che ha donato la vita per noi) mi portava con lui per fare una esperienza che successivamente avrebbe stravolto tutta la mia vita; ho camminato molto scaricando le tensioni e le scorie della vita mondana, nel silenzio e nella meditazione mi sentivo sempre più libero e pieno di pace, non avevo nulla con me, eppure era come se avessi tutto.

Come spinto da un vento impetuoso, ho iniziato a camminare, da pellegrino, attraverso le regioni dell’Italia fino ad arrivare ad Assisi, da San Francesco, a cui ho tanto sentito di ispirarmi per la sua profonda umiltà e semplicità e per l’aver donato la sua vita per Gesù e per il nostro prossimo. Durante il lungo viaggio ho incontrato diversi poveri e trasandati che mi riportarono alla mente quei volti poveri e sofferenti che vedevo nella città di Palermo.

Pian piano, cominciai a capire il progetto “Missione”: dedicare la mia vita per i più poveri dei poveri.

Da premettere che non avevo mai avuto nessuna esperienza del genere e avrei potuto farmi prendere dallo scoraggiamento, ma sentivo nel mio cuore che l’Amore di Gesù mi avrebbe aiutato a percorrere la vera e giusta strada.

Dopo l’arrivo ad Assisi, davanti la tomba di San Francesco, nei luoghi dove il Santo ha dedicato e donato la sua vita, sentii nel mio cuore di vivere la mia vita da missionario. Ebbi una reazione impulsiva, volevo andare in Africa o in India, ed invece mi sento riportare nella città dove non volevo più tornare, ma Gesù ha voluto che la Missione nascesse proprio nelle strade di Palermo; partendo dalla stazione centrale tra i vagoni e le sale d’aspetto, angoli di strada, marciapiedi, panchine dove tanti fratelli dormivano e passavano intere giornate tra l’indifferenza più assoluta.

La società li chiama: barboni, vagabondi, giovani sbandati, alcolisti, ex detenuti, separati, prostitute profughi, immigrati; ma dal momento che ho sentito il coraggio di incontrarli ed abbracciarli, li ho chiamati fratelli e sorelle, senza farli sentire inferiori o diversi da noi tutti. Ero felice di vivere con loro alla stazione, di aiutarli e confortarli, mi prodigavo a portare loro thermos con latte e the caldo, panini e coperte per ripararli dal freddo

Fu un’esperienza forte e cominciai a chiedere aiuto a tutti, e andai pure alla Curia di Palermo dal Cardinale Pappalardo, il quale capì quel giovane che andò a bussare alla sua porte e decise di venire alla stazione per celebrare una messa insieme a tutti i fratelli ultimi sotto i portici della stazione; è stato un momento indimenticabile che mi incoraggiò molto e soprattutto aprì gli occhi della città sui tanti fratelli poveri che vivevano per strada, non considerati da nessuno, come se fossero scarto e rifiuto.

Da questa esperienza alla Stazione Centrale di Palermo, decisi di non tornare più a casa dei miei genitori, per condividere per sempre la mia vita con i fratelli ultimi, inizia così la Missione che sentii di chiamare Missione di Speranza e Carità.

Si scopre un progetto di Dio sconvolgente, ricco di Speranza e Carità, che a distanza di 19 anni dal suo nascere ha coinvolto e continua a coinvolgere uomini e donne di ogni ceto sociale, anche capaci di cambiare radicalmente il loro modo di vivere per diventare missionari e missionarie della Speranza e della Carità, per operare nei luoghi di emarginazione delle grandi metropoli.

(www.pacepace.org)

lunedì 11 maggio 2015

La storia di Mirko, Chiara e altri


L'immagine della quercia


Grazie alla comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante, Mirko ha potuto ricominciare una nuova vita ed è diventato come un albero che ripara e protegge la sua famiglia e tanti ragazzi che come lui possono trovare un'occasione per ricominciare. Guarda la sua testimonianza:



Chiara Amirante racconta la gioia di vivere ogni giorno l’incontro con Cristo risorto:


Testimonianza di Paolo Zanni:



Giulio Scrocca: