"Lanciare la palla verso il canestro è una forma d’arte. È un gesto imperfetto, perché come ogni arte ha migliaia di declinazioni possibili, frutto di scelte complesse e potenzialmente infinite. Guardando tirare Steph Curry, però, cominci a credere che la perfezione sia possibile" (Alessio Marchionna)
Stephen Wardell Curry, classe 1988, poco meno di un metro e novanta e poco più di 80 kg di poesia in movimento, faccia da bambino, timorato di Dio, assolutamente inarrestabile.
La sua è una storia particolare ed esemplare, ispiratrice come poche altre ne esistono: è il racconto di un ragazzo con dei limiti fisici più che evidenti che ha cambiato la concezione comune, che si è conquistato a spallate un posto nell’élite della pallacanestro mondiale. È la storia di uno di noi che ce l’ha fatta.
Steph ha sempre avuto infatti un compagno inseparabile nella sua giovane carriera cestistica: lo scetticismo di chi lo vedeva accanto agli altri giocatori. Il suo fisico snello, ossuto, non esplosivo è stato un problema ben prima di entrare nel basket professionistico: diverse università prestigiose si rifiutarono di offrire al nativo di Akron una borsa di studio ritenendolo non all’altezza di fare la differenza in una pallacanestro fisica come quella collegiale. «Troppo basso. Troppo lento. Forse buono per una carriera in Europa». Quante volte Stephen Curry si è sentito ripetere queste parole, durante il suo periodo all’High School e al College. Un ottimo giocatore, certo, ma con troppi difetti fisici per riuscire a giocare nel basket che conta.
Avendo il padre Dell, giocatore più che discreto, offerto i suoi servigi a Virginia Tech qualche anno addietro, il ragazzo provò a seguire le orme paterne. Ma anche in questo caso la risposta fu picche: gli Hokies erano pronti a prenderlo in squadra, ma come semplice “walk on player”, ossia come studente iscritto all’università senza una regolare borsa di studio. Che in soldoni significava: vieni pure ad allenarti con noi che non sei così male, poi se un giorno ci manca il dodicesimo uomo ti convochiamo e ti godi almeno una partita dalla panchina. Dopo aver ricevuto offerte da Davidson College, Virginia Commonwealth e Winthrop, Curry scelse Davidson College, una scuola che non aveva vinto un torneo NCAA dal 1969.
Bob McKillop, che dei Davidson Wildcats era allenatore, non ci mise molto a capire cosa gli era capitato per le mani. Bastarono pochi allenamenti a Steph per conquistare nel modo più totale il suo nuovo coach, che un giorno, davanti ad un nutrito gruppo di studenti del college, realizzò una di quelle previsioni destinate a lasciare il segno: “Wait till you see Steph Curry. He’s something special” disse. Bel colpo Bob...
Il fenomeno di Golden State interpreterà successivamente il suo approdo a Davidson come una precisa scelta divina, dimostrando una fede non comune: «Tutto succede per una ragione e io credo che Dio mi abbia voluto a Davidson semplicemente perché questa storia, la mia storia, potesse svilupparsi nel modo in cui si è sviluppata finora».
Il 15 marzo 2007, Steph realizza 30 punti per battezzare la sua prima partita di torneo NCAA con i Wildcats, in una sconfitta contro Maryland. Il 16 aprile, nel campus che avrebbe dovuto essere suo, a Blacksburg, Virginia, un tipo di nome Seung-Hui Cho apre il fuoco alla cieca, ammazza 32 persone, ne ferisce altre 17 e poi si toglie la vita. Sliding doors...
Le prime due stagioni a livello universitario sono da incorniciare: impiega solo 83 partite per sorpassare quota 2000 punti (con una media di 24,4 a serata). Durante il torneo NCAA 2008 fa vittime eccellenti: Gonzaga (40 punti), Georgetown (30), Wisconsin (33 di fronte a LeBron James, che l’anno dopo lo vedrà metterne altri 44 vs. NC State) e Kansas (25). Quattro partite, dieci giorni, centocinquantadue minuti, centoventotto punti. In tutta America diventa familiare quel n. 30 che vede sulla maglia rossa dei Wildcats e che ritrova poi tatuato sul suo polso, insieme alle lettere TCC (“Trust. Commitment. Care”, il mantra di coach McKillop). Davidson diventa la squadra Cenerentola, il college per cui fa il tifo tutta America e infine riesce ad entrare tra le prime 8 del torneo NCAA dopo un’assenza durata qualche era geologica. Ecco in questo video il momento in cui Steph Curry diventa STEPHCURRY!!
Stephen decide, ascoltando i consigli del padre, di rimandare un approdo in NBA a quel punto decisamente probabile per disputare la sua stagione da Junior, nella quale diventa il nuovo scoring leader di tutti i tempi di Davidson e, soprattutto, viene nominato miglior realizzatore della stagione NCAA, portando a casa una media di quasi 29 punti a partita e mettendo in fila gente come Kevin Durant.
Nel 2009 Stephen Curry ha firmato il suo primo contratto da professionista con i Golden State Warriors per 12,7 milioni di dollari, selezionato come la settima scelta assoluta. L’impatto col professionismo è tutt’altro che traumatico, e ancora una volta il “Baby-faced Assassin” riesce a far ricredere tutti coloro che gli rinfacciavano delle carenze fisiche non trascurabili: percentuali al tiro da cecchino, costanza nelle prestazioni, inizia a far girare le teste dei suoi fan, diventando un autentico eroe di culto del parquet per parecchi appassionati di basket. Viene anche nominato secondo rookie dell’anno nonostante non riesca a portare Golden State ai Playoff.
Le difficoltà maggiori però devono ancora arrivare, e si presentano nella forma più subdola e dolorosa per un giocatore molto giovane, quella dei problemi fisici persistenti. Il suo problema principale diventano le caviglie. Troppo fragili e prone all’infortunio per avere continuità a quel livello. I detrattori di Stephen Curry tornano alla carica e la stagione 2011/12 scivola via senza soddisfazioni, con un Curry troppo condizionato dagli infortuni per riuscire a incidere: scende in campo solo 26 volte e deve abbandonare i giochi molto prima del dovuto. Addio sogno playoff per il terzo anno di fila. Anche in questo caso, però, Steph si dimostra più forte dei suoi limiti, troppo tenace e testardo per cedere di fronte alle difficoltà: lavora sul suo fisico, sulla sua postura, rafforza fianchi e glutei e, così facendo, supera i problemi alle caviglie.
Come tutti i grandi, una volta toccato il fondo, il numero 30 comincia la sua risalita. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la stagione 2012/13 è stata un continuo strabuzzare gli occhi e balzare in piedi dal divano per la sorpresa dopo ogni magata del ragazzino di Akron. Che è finalmente riuscito a condurre i suoi alla post-season e, una volta salito sul palcoscenico più importante, ha recitato il ruolo di primo attore in maniera impeccabile. La storia si fa nelle partite decisive, e proprio durante quelle sfide Curry è letteralmente esploso, scatenando attorno a sé un entusiasmo immenso, dai 54 punti al Madison, tempio sacro del gioco dove spesso sono stati consacrati i più grandi di tutti i tempi, fino ad alcune prestazioni semplicemente disarmanti nei playoff, sia nella serie con Denver che in quella con San Antonio. Il 17 aprile 2013, nell'ultima partita stagionale contro Portland Trail Blazers, Curry realizza il 272º canestro da tre della sua stagione superando il record di triple in un'annata NBA che apparteneva a Ray Allen.
Osservando giocare il 30 si nota immediatamente come il suo gioco goda di una grande pulizia. Ogni gesto tecnico è eseguito sempre in modo armonico, senza sbavature. Chiunque sia il difensore non fa alcuna differenza: Steph sa quello che deve fare, conosce perfettamente la sequenza dei movimenti da compiere, e spesso sembra che la presenza di un ottimo o di un pessimo difensore davanti a lui sia un trascurabilissimo dettaglio. Se lasci più di 10 cm tra la tua mano e la sua faccia, nel momento in cui parte il tiro sai già che dovrai andare a battere la rimessa. Se per non concedergli la conclusione ti fai battere in entrata, non sperare troppo nell’aiuto del lungo: il ragazzo alza la parabola a suo piacimento e trova quasi sempre il fondo della retina. Quando non si inventa uno di quegli assist a “schiaffo” che dovrebbero essere inseriti di diritto nell’elenco delle meraviglie da preservare su questo pianeta.
In tutto ciò il nostro riesce a non essere un giocatore egoista, ossia non tende a diventare il terminale offensivo di ogni singola azione dei suoi, come viene invece rinfacciato ad altri fenomeni assoluti come Bryant o Anthony. Per Steph i compagni vengono prima di tutto, a tal punto da affermare in un’intervista che “Personally, I know that my teammates, coaches, and everyone else involved are as much a part of it as I am. With that in mind, I give glory to God for my talents and whoever is helping me, they get the credit too” ("Personalmente, so che i miei compagni di squadra, gli allenatori e tutti gli altri che sono coinvolti sono come gran parte di ciò che io sono. Tenendo in mente questo, do gloria a Dio per i miei talenti e tutti quelli che mi stanno aiutando hanno gli stessi meriti").
Nei suoi sei anni di NBA, Curry ha messo in mostra uno stile di gioco eccitante, dove una grande visione di campo, compagni e avversari si accoppia a fantastiche capacità tecniche di ball handling e a uno stile di tiro particolare ma estremamente efficace, che lo rende, senza mezzi termini, uno dei più grandi tiratori della storia di questo gioco. Quando utilizziamo l’aggettivo “eccitante”, per descrivere il modo di stare in campo di questo playmaker di 1.91 m, lo facciamo ben consapevoli della sua portata, poiché guardare Curry è un saliscendi emozionale che solo pochi giocatori riescono a trasmettere. Le sue scelte sono estreme e le selezioni elettrizzanti; può decidere di tirare in qualsiasi momento, con l’uomo addosso, dopo essersi smarcato con un passo di arretramento, così come dopo aver vagabondato libero per il campo, con il pallone sempre incollato alle mani come fosse uno yo-yo: se lo può permettere, la palla va quasi sempre dentro.
Ma Curry non ama brillare di luce propria in mezzo al buio, cerca anzi costantemente di coinvolgere i suoi compagni nella sua trance agonistica. Quando si accende, i Warriors si accendono con lui, e chiunque sia sul parquet in quel momento sale di un giro. Quando i Warriors si accendono, si accende con loro San Francisco, in una catena coinvolgente e spettacolare, quasi commovente quando ci si accorge di quanta passione la squadra del reverendo Jackson sappia suscitare nei propri tifosi.
Il momento giusto, la scintilla nell’arco dei 48 minuti può nascondersi ovunque. Gli avversari di Steph lo sanno, e giocano con la consapevolezza che quando il momento giungerà, arginare la marea gialla sarà terribilmente complicato.
Al termine della stagione 2014/15, dopo aver guidato i suoi Warriors ad uno straordinario record di 67-15 (migliore della lega), Curry riceve il premio di MVP, migliore della regular season. Quindi Porta i suoi Warriors in Finale NBA, dopo aver battuto i New Orleans Pelicans, i Memphis Grizzlies e gli Houston Rockets. Nelle Finals riesce a battere i Cleveland Cavaliers di LeBron James per 4-2 grazie anche ad una prestazione da 37 punti in gara 5 e il 17 Giugno si laurea campione NBA riuscendo a vincere nella stessa stagione MVP e anello. Nel corso della post-season, infrange il record di Reggie Miller per triple realizzate in una edizione dei Playoff NBA.
Stephen Curry, ora, è sul tetto del mondo e forse ripensa a tutte quelle volte in cui gli hanno detto che non ce l’avrebbe fatta, che era troppo basso, troppo gracile, troppo lento. Fissa il trofeo di campione NBA e sorride; la faccia da eterno bambino che nasconde un animo gelido, da autentico killer sportivo. Quando è stato nominato miglior giocatore dell'NBA, ha risposto: “Sono un umile servo di Dio”. Parla con franchezza degli ostacoli che ha dovuto superare. “Tutto accade per un motivo”, ha affermato, “tutto ha una storia, e bisogna prendersi del tempo per capire qual è il proprio sogno e cosa si vuole davvero nella vita. Nello sport o in altri ambiti, bisogna essere consapevoli che si deve sempre lavorare per trionfare”.
Curry ha avuto parole per la sua famiglia, per il padre e la madre, fornendo la chiave di un gesto che compie spesso sul campo: “Mi colpisco il petto e punto al cielo. Questo simboleggia il fatto che ho un cuore per Dio. È una cosa che abbiamo trovato con mia madre quando ero all'università”, ha spiegato.
“Lo faccio ogni volta che entro in campo per ricordare per chi gioco. La gente deve sapere perché sono chi sono, per il mio Signore e Salvatore”.
“Tutti mi chiedete come faccio a segnare certi canestri, a vedere certe linee di passaggio. E’ bello vedere la gente che si esalta per il mio gioco, ma la risposta alle loro domande è in Dio. Quello che so fare in campo viene da lui e amo indirizzare la gente verso la fede”.
E’ uno di quei ragazzi talentuosi che hanno visto realizzare il loro sogno. E’ famoso, e in quanto tale, potrebbe concedersi ad ogni tipo di vizio esistente, passare da una donna all’altra, vivere una vita dissoluta potendo contare sul suo stipendio dorato. E invece è sposato da due anni e mezzo con Ayesha, conosciuta da adolescente nella chiesa che frequentava. Ha una figlia Riley per la quale dice: “posso anche segnare 50 punti, ma niente mi fa brillare gli occhi come il sorriso della mia bimba”.
E in un mondo come quello dello sport, dove prevale l’individualismo e dove la vanità la fa da padrona, un esempio come quello di Stephen Curry è come un raggio luminoso: “So da dove viene il mio talento, da Dio. E io non gioco a basket per fare 30 punti a partita, ma per esserne testimone e condividere la testimonianza. Amo indirizzare la gente verso colui che è morto sulla croce per i nostri peccati: è grazie a Lui che c’è un posto in paradiso che ci aspetta. E questa consapevolezza vale molto più di un trofeo.”
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